domenica 27 novembre 2011

Diario 152 21-27 novembre


Diario 152
21-27 novembre
F.I.
- Il fiducismo non paga
- Che fa il governo Monti?
- Vediamoci chiaro
- Marchionne un marpione

- Monti ha un problema
- A propèosito della crisi
- Citazioni: nel bene e nel male
 
Il “fiducismo” non paga
Lunedi 21 novembre:               Borsa Milano - 4,70%;  spread 487
Martedi 22 novembre:              Borsa Milano -1,41% ;  spread 490
Mercoledì 23 novembre:          Borsa Milano -2,59%;   spread 483
Giovedì 24 novembre               Borsa Milano +0,03%   spread 491
Venerdì 25 novembre               Borsa Milano +0,12%   spread 499,80
Molti si erano illusi che bastasse “dare” fiducia ai mercati perché la speculazione si fermasse. Il professor Monti era l’uomo giusto, sprigiona fiducia da tutti i pori, ma la speculazione continua a … speculare.
Alcuni ricavano da questa situazione che è stato inutile far dimettere Berlusconi; e no! Berlusconi non era responsabile della speculazione (almeno che lui stesso non speculi, con il suo patrimonio se lo può permettere), come non lo è Monti. Ma per questione di salute pubblica le dimissioni di Berlusconi sono state molto opportune.

Che fa il governo Monti?
“Piano ma bene”, non ci credo. Ho il sospetto che non sappia cosa fare, forse, ma molte forse, si vanno convincendo che le ricette tradizionali non servano a niente e … riflettono. Monti sa (?) che una soluzione sola Italiana sarebbe inutile e vuole convincere l’Europa (cioè Germania e Francia) ad una politica comune. Ma quale politica?

Vediamoci chiaro
Chiacchierando e riflettendo con il mio amico Angelo sono venute fuori alcune questioni:
-          espressi in eurobond o in BOT, CCT ecc. per il debito degli stati non cambierà, sarebbero debitori in eurobond. Si dice  che gli eurobond sarebbero più affidabili, torniamo alla favola della fiducia. Inoltre non si capisce cosa potrà cambiare  dal punto di vista dei rendimenti;  avranno rendimento unico per tutti o saranno rendimenti che il mercato stabilirà stato per stato? E per gli speculatori cosa cambierà,  diserteranno le aste o con altri sistemi decideranno loro dei rendimenti  di eventuali eurobond in capo all’ Europa nel suo complesso?
-          è insopportabile come viene presentata la questione del debito allo scopo di indurre panico o, per mera ignoranza, allo scopo di indurre in soluzioni non solo sbagliate, ma sostanzialmente favorevoli agli speculatori e dannose per i popoli. È necessario subire i rialzi dei rendimenti perché, si argomenta,  in caso contrario non si troverebbero sul mercato chi sarebbe  disposto a prestarci nuovo danaro. Tanto meno è impensabile toccare il debito. Ma attenzione dobbiamo cercare nuovo danaro sul mercato solo per pagare i debiti già contratti. I risparmiatori e gli speculatori i soldi ce li hanno già dati, è il nostro debito;
-          partiamo dal nostro debito. Ciò che gli speculatori e i risparmiatori hanno in mano sono titoli, in parte scaduti, con un rendimento che all’atto della loro sottoscrizione  non superava il 4%; titoli perfettamente validi anche se alla scadenza non vengono onorati (sono cambiali dello Stato). Su questi, a meno che i portatori non decidano di farci fallire, (nel qual caso metterebbero in discussione non solo il rendimento ma anche il valore nominale dei titoli stessi e tempi lunghissimi di eventuale rientro di capitali e rendimento), il massimo che possono chiederci, è un interesse di mora. L’asta che periodicamente si fa dei titoli di stato serve solo per pagare i titoli scaduti, cioè per rinnovare il debito spostando nel tempo la sua scadenza,  per questo i rinnovi avvengono ad elevati  rendimenti per danaro già prestatoci, con la scusa di favorirci con nuove e più lontane scadenze. Insomma una specie di diritto di mora, per rinnovare il debito;
-          va ripetuto che i titoli di Stato sono debiti a pari di tutti gli altri debiti contratti dallo Stato nei riguardi dei cittadini: pensioni, salute, scuola, ecc. Favorire i titoli di Stato configura una bancarotta preferenziale, proibita dalla legge.
Che si può fare? Data l’incapacità di pescare il pesce giusto, non si sa che pesci prendere, la cosa da fare è congelare per cinque anni il debito. Cosa che dovrebbe interessare anche il “piccolo” risparmiatore che in caso di fallimento vedrebbe vanificare il proprio capitale, mentre i titoli restano validi. In questi cinque anni i governi  potrebbero capire quali sono i mutamenti indotti e potrebbero prendere i provvedimenti adatti (dal controllo sui tassi d’interesse, al controllo sui cambi, alla eliminazione delle Borse, alla riorganizzazione delle banche alle quali sarebbe proibito operare nella “finanza”, ecc.) tutti provvedimenti che tuttavia non inciderebbero, almeno io credo, sulla natura del “nuovo capitalismo”. Per chi non credesse in questa soluzione ci sarebbe tempo per cominciare a sperimentare forme di nuove e diverse organizzazioni sociali ed economiche.
Un soluzione di questo tipo dovrebbe essere comune a tutti i paesi, ammesso che i decisori politici fossero indipendenti dalla “finanza”; in questa direzione il professor Monti dovrebbe esercitare la forza della sua serietà e credibilità. Se non riuscisse potremmo farlo da soli, sapendo che non abbiamo bisogno di ricorrere al mercato finanziario per cinque anni.   

Marchionne un marpione
Il finanziere Marchionne ha dato prova della sua filosofia. L’accordo di Pomigliano, che secondo i firmatari sindacali di quell’accordo era limitato a quella fabbrica, diventa la regola per tutto il gruppo. Al solito “mangiare la minestra o ….”.
È stato costretto dal governo ad un accordo su Termini Imerese che in qualche modo garantisce, anche se non totalmente, i diritti dei lavoratori? Il participio passato del verbo costringere mi sembra eccessivo. Forse ci sono delle contropartite non immediatamente evidenti? Non sono necessari plateali dichiarazioni, tra gentiluomini basta un accenno, un sorriso, un aggrottare di fronte e tutto è chiaro.
Comunque l’accordo di Termini non garantisce sviluppo futuro.   

Monti ha un problema
Il Presidente del consiglio vorrebbe nella compagine governativa, non è chiaro se come sottosegretario o vice ministro il dr. Grilli, direttore generale del Ministero del tesoro. Ma Grilli nicchia, non per ragioni politiche, non per ragione di dignità, era stato candidato a Governatore della Banca d’Italia, non per antipatia a Monti, ma per ragione di soldi. Egli oggi guadagna euro  524.840 annui, e, andando al governo, verrebbe a guadagnare solo 180.000€. Certo una gran perdita; la soluzione sarà trovato nel “doppio incarico”, che non credo sia un doppio lavoro, ma potrebbe essere addirittura un doppio stipendio.
   
A proposito della crisi
(Vi propongo un articolo che avevo scritto per Il Manifesto ma che deve essersi perso nelle stanze della redazione. È stato pubblicato dal blog sbilanciamoci, cosa di cui ringrazio gli amici. Che l’articolo si era perso è confermato dal fatto che oggi, domenica, Il Manifesto ne pubblica alcuni stralci presi dal blog di sbilanciamoci. Blog che vi spingo a frequentare perché molto interessante).

C’è  un po’ di terrorismo in chi è contrario al fallimento nel descriverne gli effetti. Mi è chiaro che giungere ad una qualche forma di fallimento non è come bere una tazza di caffè, ma il problema non è questo, il tema è: se ne può fare a meno? Una risposta a questo interrogativo presuppone una qualche considerazione sulle trasformazione del capitalismo. Un po’ mi devo ripetere, mi scuso.
Si sostiene che la crisi attuale è una crisi da eccessiva capacità produttiva e da mancanza di domanda solvibile. Due osservazioni: da una parte questa interpretazione è contraddittoria con l’osservazione che la crisi prende corpo da un eccesso di domanda a “credito”, quindi non la domanda ma la sua finariarizzazione è il problema; dall’altra parte è vero che c’è una crisi di domanda dato che la popolazione viene continuamente tosata per far fronte alle ingiunzioni della finanza.
È necessario riflettere che la finanziarizzazione  dell’economia non è solo una evoluzione del capitalismo ma la modificato della sua natura. Il processo è passato dalla proposizione denaro-merce-denaro (D-M-D), attraverso il quale il capitale, con una distribuzione non equa del valore prodotto tra capitale e lavoro, accumulava ricchezza,   a quella odierne  denaro-denaro-denaro (D-D-D), che senza la “mediazione” della produzione di merci (e servizi), permette di accumulare ricchezza (in poche mani).
Si rifletta sui seguenti dati mondiali: il PIL ammonta a 74.000 miliardi; le Borse valgono 50.000 miliardi; le Obbligazioni ammontano a 95.000 miliardi; mentre gli “altri” strumenti finanziaria ammontano a 466.000 miliardi. Risulta così che la  produzione reale, merci e servizi (74.000 miliardi), è pari al 13% degli strumenti finanziari. Quanto uomini e donne producono, in tutto il mondo, rappresenta poco più di 1/10 del valore della “ricchezza” finanziaria che circola. Questo dato quantitativo ha modificato la qualità dell’organizzazione economica: mentre resta attiva la parte di produzione materiale si è sviluppata un’enorme massa di attività finanziaria che mentre trentanni fa lucrava sul “parco buoi”, chi affidava alla borsa i propri risparmi nella speranza di arricchirsi, ora lucra sui popoli che da una parte sono sottoposti ad una distribuzione non equa di quanto produco (gli indipendenti sono poco tali e sono entrati nella catena allungata del valore aggiunto) e, dfall’altra parte,  sono tosati (più tasse e meno servizi) in quanto cittadini.  
Si tratta di un mutamento che investe la produzione, la distribuzione della ricchezza, ma anche il processo politico e la stessa, tanto o poca che sia, democrazia. Quando la ricchezza si produce attraverso la mediazione della merce era attivo dentro lo stesso corpo della produzione, una forza antagonistica che cercava di imporre una diversa distribuzione della ricchezza prodotta e l'affermarsi di diritti di cittadinanza. Niente regalato, conquiste frutto di lotte, di lacrime e sangue. Al contrario quando diventa prevalente  il meccanismo finanziario,  si scioglie il rapporto tra capitale e società, e diventa impossibile ogni antagonismo specifico. Tutto si sposta  sul piano politico, un bene e un male insieme. Un male perché manca una cultura alternativa, tutti viviamo entro la dimensione liberista e del mercato, un bene perché è possibile andare alla radice del problema.
È diventato senso comune che il mercato (finanziario) vuole sicurezza e credibilità! Una parte molto modesta della verità. La speculazione finanziaria da se stessa, data la massa di risorse che muove,   e le tecnologie che usa (gli High Freguency Trading – HFT – che muovono due terzi delle borse),  si crea autonomamente le occasioni di successo  per speculare. Come ha scritto Prodi “i loro computer scattano tutti insieme, comprano e vendono gli stessi titoli e forzano in tal modo il compimento delle aspettative”. Contrastare la speculazione, come lo si sta facendo, significa solo offrirgli alimento continuo. Si può fare più equamente, e sarebbe importante, ma questo non intaccherebbe il meccanismo. Bisogna colpire direttamente al cuore la speculazione, toglierli l’acqua nella quale nuota. Certo che ci vorrebbe un’azione comune a livello internazionale, ma l’elite politica e tecnica è figlia ideologica, qualche volta non solo ideologica, del liberismo e della finanza; ambedue si possono “criticare” ma non toccare, bisogna farli “operare meglio”. Come ha scritto Halevi, le maggiore banche tedesche e francesi sono piene di titoli tossici, messi in bilancio al loro valore nominale mentre valgono zero, ma il sistema (la governance europea franco-tedesca) difende le banche tedesche e francesi, mettendo in primo piano i debiti soprani e le banche dei paesi sotto tiro (e quando toccherà alla Francia? Perché toccherà!).
In sostanza il sistema non si tocca, si possono punire, anche severamente, in America si fa, chi la fa grossa, ma poi si finanziano le banche, né si riesce a mettere una qualche freno (amministrativo, fiscale, legislativo, ecc.) alla speculazione. Come l’apprendista stregone non riesce a gestire le forze che ha scatenato.
Non voglio dire che il sistema è al collasso, ma è sulla strada ci vorrà tempo (anche secoli scrive Ruffolo)  e ci vorranno forze, ma si coglie “una condizione di insoddisfazione diffusa, di generale incertezza e di sfiducia e timore del futuro”.
La Grecia, ha fatto tutto quello che gli era stato richiesto, licenziamenti, diminuzione di stipendi, tagli, ecc. ed è giunta, di fatto al fallimento (controllato). La speculazione finanziaria ha aggredito la Grecia, ha tosato la popolazione, ha scarnificato la società. Il furbo Papandreu ha tentato la mossa democratica del referendum, è stato redarguito, bastonato ed ha fatto marcia indietro.
Oggi tocca all’Italia (un po’ alla Spagna, domani la Francia, nessuno è al riparo. La finanza non ha patria, non ha terra, non ha sangue), che si appresta (con serietà, si dice) ha seguire le richieste della Banca europea, del Fondo monetario, della Commisione della UE, cioè di fatto dalle finanza, per scivolare lentamente in una versione diversa della Grecia. Ha senso?  Certo che no, ma la questione è: ha senso una politica keynesiana? Ha senso una più equa distribuzione dei sacrifici? Ha senso pensare a risposte più “riformiste” e civili alle indicazione della Banca europea? ha senso pensare ad operation twist (di che dimensione dato l’ammontare del debito italiano), proposta da Bellofiore e Toporowski? senza con tutto questo intaccare il potere e la capacità operativa della speculazione (che costituisce  parte strutturale del sistema)?
Credo di no, e mi domando: è necessario continuare ad avere la Borsa che ha perso ogni originale funzione? È possibile dividere le banche che fanno finanza da quelle della raccolta e collocazione del risparmio?  È  possibile avere una banca europea che operi come una banca nazionale? È possibile avere un governo europeo, non solo economico ma generale? È possibile tassare le rendite e i patrimoni? Ecc. Tutto è possibile ma poche cose sono probabili.
Quale è l’ottica con la quale un governo di centro-sinistra (che si dice probabile) deve guardare alla situazione? Certo c’è da ricostruire il senso della società, come dice la Bindi, c’è da ricostruire un ruolo internazionale, c’è da rilanciare lo sviluppo (sostenibile, equilibrato, ambientale, risparmiatore, ecc. lo si qualifichi quanto lo si vuole), c’è da affrontare il problema del lavoro dei giovani, delle donne, dei precari, dei disoccupati, c’è da occuparsi della scuola, della sanità, del territorio, ecc.  La domanda è tutto questo è fattibile insieme al pagamento del debito? Qualcuno (Amato) parla di una patrimoniale di 300-400 miliardi per ridurre drasticamente il debito. Bene ma tutto il resto come lo si fa. Sacrifici, per piacere no, riforme impopolari per piacere no, e non solo per collocazione politica ma perché inutili e dannoso per fare tutte le cose elencate prima.
Penso che bisogna mettere mano al debito. Il come, dipende, da volontà e forza:  un concordato con i creditori (via il 30%); una moratoria di 3-5 anni; differenziato rispetto alle persone fisiche e alle istituzioni (le banche che hanno in bilancio titoli tossici potrebbero benissimo tenersi anche i titoli sovrani, con buona pace del Cancelliere tedesco), ecc. La patrimoniale certo che ci vuole, ma dovrebbe servire ad avviare tutte le altre cose, così come una ristrutturazione della spesa pubblica (spese militari, ecc.)  potrebbe liberare risorse. Mentre la lotta all’evasione (mancati introiti per 120 miliardi l’anno) e alla corruzione (60 miliardi l’anno) potrebbero servire alla diminuzione delle imposte dei lavoratori. Insomma ci sarebbe tanto da fare, ma bisogna in parte, in toto, o per un certo numero di anni, liberarsi del debito.
Non dovrebbe essere una iniziativa europea? Certo, ma in mancanza di facciamo da soli, non c’è da salvare una stratta Italia, ma una concreta popolazione di uomini e donne. Questo è il tema.
Oggi ci avviamo al governo del “grande” Mario; che si tratti di persona onesta e retta è molto probabile, ma è il suo pensiero che preoccupa, un pensiero tanto forte quanto inefficace.



Citazioni: nel bene e nel male
Piero Fassino
“Essendo un’imposta sugli immobili, Ici è una forma di patrimoniale. Non infiliamoci in dispute nominalistiche”, La Repubblica, 21 novembre 2011 (Ma neanche facciamo gli ipocriti, quanti hanno rivendicato la necessità di una “patrimoniale” non si riferivano solo all’Ici)

Angela Merkel
“Il presidente Monti ci ha illustrato i provvedimenti che l'Italia ha in programma ed è molto impressionante vedere le misure anche strutturali che il governo è intenzionato ad adottare”,
Il Sole 24 Ore , 24 novembre 2011

Isidoro Davide Mortellaro
“Da qualche tempo si preferisce aggettivare come sovrano, piuttosto che pubblico. La lingua batte dove il dente duole. La crisi del neoliberismo scoperchia una verità a lungo solo annusata dell’inesausta discussione sulla globalizzazione. Politica e Stato l’hanno fatta da padroni. Sia quando si doveva imbellettare imprese e territori per farli galoppare e rifulgere sul proscenio globale: naturalmente a danno di welfare e degli ultimi. Sia ora che bisogna impedire il tracollo di banche e imprese o adeguare previdenza e sanità alla demografia e all’ambiente del terzo millennio” Il Manifesto, 27 novembre 2011

Gian Giacomo Migone
Farei torto all’autore e a voi se estraessi una frase del lungo articolo di Migone pubblicato su L’Indice, n. 11, Novembre 2011. Tratta degli effetti dei privilegi dei politici, non solo economici, sulla democrazia e sull’organizzazione della sfera pubblica. Vi invito a leggere il testo.

domenica 20 novembre 2011

Diario 151 (14-20 novembre 2011)


Diario 151
14-20 novembre 2011
F.I.


Nuovo governo o governo nuovo?
Uno dei commenti più appropriati al nuovo governo Monti e quello di ELLEKAPPA pubblicato sulla La Repubblica del 19; ci sono i soliti due personaggi e uno dice “Nei prossimi giorni sarà più chiaro cosa intende fare il professor Monti” e l’altra risponde “Non appena si sarà diradata la coltre di incenso”.
Non solo il governo Monti ha avuto una maggioranza parlamentare inedita nella storia della Repubblica, tutti i gruppi, tranne la Lega, hanno votato a favore, ma anche il consenso dell’opinione pubblica è altissimo, supera il 70%, come indicano i recenti sondaggi . Di Berlusconi non ne potevamo più. 
Capisco che dopo i fasti e le volgarità (pubbliche e private) del governo di centro-destra e dei suoi membri,  è un vero sollievo la “sobrietà” del neo presidente, lo stile Monti, come già si recita. Ma non esageriamo lo stile è importante ma non è tutto.
Intanto il professore nella sua sobrietà è anche violento. È il caso di quando per risponde alla possibilità che la suo governo venga “staccata la spina”, certo non una delicatezza, ha richiesto che non si usi questo termine perché lo metteva in confusione  non sapendo più se dovesse considerarsi un rasoio elettrico o un polmone artificiale, ironia  per ribadire che era stato chiamato a tagliare e a salvare una repubblica malata terminale. Una battuta ironica, si è detto, ma certo dall’allusione  violenta nei riguardi della politica.
La realtà è che il Presidente e il Professore hanno messo in mora la politica, al di là di affermazioni diverse, sia del PDL che del Idv, nessuno, infatti,  avrà il coraggio di mettere in crisi questo governo, il quale dando un colpo a destra e uno a sinistra renderà difficile una presa di posizione chiara e antagonistica. Il convincimento del Presidente era contro le elezioni, e questo convincimento ha avuto la meglio sulla stessa incertezza dei partiti, una parte dei quali diceva di volere le elezioni, ma sperava di no (PDL), e una parte voleva un governo di transizione, ma sperava nelle elezioni (PD). In questa situazione il Presidente ha avuto buon gioco di mjetterli con le spalle al muro ed accettare il governo di grande coalizione che poi si è trasformato in governo dei tecnici.
Banchieri, ma soprattutto professori e cattolici, forse moderatamente progressisti ma dentro i confini dell’economia di mercato e di una società liberista. Conflitti d’interesse, forse, ma eravamo abituati a ben peggio. Il Professore li ha scelto con accuratezza, certo ha guardato e soppesato le competenze, che gli erano note, ma soprattutto ha valutato l’approccio metodologico (quella che siamo soliti chiamare l’ideologia sociale).  È quello che ci voleva nella situazione data, credo proprio di no.
Il governo è stato benedetto dal Vaticano (che avanza subito le sue pretese, come l’accenno alla legge sulla fine vita), anche perché vede collocati dentro la compagine governativa suoi uomini di punta.
Possiamo apprezzare lo stile del Professore, in realtà si tratta di mera educazione e di educazione istituzionale, cosa alla quale non eravamo più abituati e che tanto oggi ci meraviglia ed entusiasma, ma i contenuti?
Ancora si sa poco, ma quello che si sa indica che siamo di fronte ad un nuovo governo, e non ad un governo nuovo.
Che il ministro della Pubblica istruzione garantisca che al più presto saranno emanati i regolamenti per attivare a pieno la riforma Gelmini per l’università, lascia di stucco, o forse no.
Che per il rilancio delle opere pubbliche si parli di “coinvolgimento dei privati” lascia intravedere che ci si muove nella direzione di opere che “rendono” e non verso le opere di cui il paese ha bisogno.
Si parla di alleggerire la tassazione sul lavoro, ma contemporaneamente si parla di aumento dell’IVA e delle accise; insomma quello che viene dato dalla mano sinistra viene tolto, aumentato, dalla mano destra.
Il Professore ha a più riprese affermato che chi più ha avuto deve contribuire di più, ma come? Di patrimoniale non si sente parlare se non dell’ICI, che colpisce l’80% delle famiglie che abitano in casa in proprietà, non credo che il professore da buon economista ritenga che sono la totalità di queste famiglie che hanno avuto di più perché per due anni non hanno dovuto pagare l’ICI. Ma vedremo come si fa a far pagare di più che più ha avuto.
Ma è inutile e forse non corretto fare illazioni. Basta attendere qualche giorno che avremo i primi provvedimenti da giudicare. Ma essendo il cielo nuvoloso è buona pratica avere pronto l’ombrello.
Eppure nelle poche ed educate parole del Professore non un accenno su come combattere la speculazione. Non vorrei che pensasse che la “fiducia” mette il freno agli speculatori.

Una mancanza di stile           
In questa grande entusiasmo per il nuovo stile, mi pare di dover coglierne una caduta. Non so se il neo Presidente ha, consapevolmente chiamato l’applauso, ma so che il parlamento nel suo insieme ha dato segno di interpretare il nuovo stile come un impasto di buona educazione e di ipocrisia quando a con una ovazione unanime ha salutato l’ex sottosegretario alla presidenza Letta, seduto in tribuna. Che si tratti di un “servitore” si, ma non di un servitore dello stato. Letta è stato al centro di tutti gli affari di Berlusconi, soprattutto di quelli politici, il suo consigliere per 17 anni,  ha frequentato con regolarità con Bisignani (non mi pare sia stato mai negato che questo mestatore avesse un suo ufficio accanto a festeggiato dal Parlamento), il nepotismo affaristico lo ha spesso sfiorato, degli affari/politica della seconda repubblica è stato sempre protagonista. Di che cosa l’ha onorato il parlamento? Forse del suo comportamento doroteo? di aver moderato la verve del suo presidente? di essere stato ufficiale di collegamento tra Palazzo Chigi e il Vaticano? di aver ascoltato con compunzione i leader  dell’opposizione?  
Ma lasciamo perdere.
  
Il complottismo
Pierluigi Battista ha scritto una breve nota su magazine del Corriere sella Sera contro il complottiamo. Ma se il complottismo è il rifugio di chi non sa trovare spiegazioni,  di chi non ha cognizione adeguata dei processi sociali e politici, di chi non trova altro “pensiero” per reagire ad uno stato di cose insopportabile, un “io so” di chi vuole finire in prima pagina (Battisto se la prende in particolare con l’on. Veltrone), questo non vuol dire che i complotti non esistano. Per esempio Battisti dovrebbe spiegare come mai un tribunale ha rimesso in libertà alcuni mafiosi condannati all’ergastolo per la strage Borsellino, riconoscendo che il processo, nelle sue diverse istanze, è stato falsato da fasulle dichiarazioni di un pentito, da indagine deviate, dal contributo di istituzioni non ad indagare sulla scena del delitto ma a creare una falsa scena del delitto. Io non so, ma in questo caso sospetto.      

Citazioni: nel bene e nel male

Paolo Romani, ex ministro dello sviluppo economico
“Da un lato sono sollevato (dal governo Monti): l’esperienza di responsabile del dicastero dello Sviluppo economico è stata entusiasmante, impegnativa e, sul finire, anche piuttosto faticosa” , Il Corriere della Sera 16 novembre 2011 (La fatica che ha fatto per tentare di “regalare” le nuove frequenze televisive deve averlo distrutto)

Mario Sechi, direttore del quotidiano il Tempo
“O facciamo il governo Monti, con dentro i politici e senza scadenza, oppure siamo cotti” , Il Corriere della Sera 16 novembre 2011 (Mi piace seguire Mario Sech; al Telegiornale della notte di Rai3, lo invitano spesso, secondo me lo fanno a posta. Il direttore con grande sicurezza  dice sempre quello che “avverrà domani”, che poi non avviene, ma mai ha detto “mi sono sbagliato”, ha sempre continuato a vaticinare. È un caso meritevole di uno studio clinico)

Ciriaco De Mita, ex tutto
“Berlusconi si legittima in quanto votato dal popolo, ma cade non sapendo neppure spiegare perché non è in grado di guidare il Paese. Da qui riparte l’attualità del popolarismo. Che resta la cultura politica più moderna per trasformare la rappresentanza in partecipazione e non ridurla a puro supporto elettorale ottocentesco”, Il Corriere della Sera 16 novembre 2011 (ci risiamo?)

Michel Onfray
“Nel frattempo, milioni di «indignati» scendono nelle piazze delle capitali europee per dire il proprio malcontento. E  nient'altro... Questa forza inutile perché  inutilizzata è puramente protestataria. È una forza anticapitalista — è il suo credo — che non ha nulla di positivo da proporre: non vuole il potere, non vuole aderire a un partito già esistente, non vuole creare una formula originale e inedita di macchina per la presa del potere, non vuole lea­der — ha torto... Infatti, il serpente del capitalismo postmoderno continua la propria metamorfosi senza aver di fronte niente e nessuno per questa trasfigurazione che rafforzerà la potenza della bestia e, se nulla sarà fatto, la doterà di una terribile ferocia.
La configurazione di tale mutazione, la pericolosità del capitalismo liberale euro­peo per i popoli, il fallimento dei modelli marxisti, il nichilismo assoluto che preten­de d'essere solo protestatario, la minaccia di un nuovo capitalismo ancora più darwiniano obbligano a pensare diversa­mente gli eventi: la formula anarchica di Proudhon è da reinventare per i nostri tempi. Essa presuppone una rivoluzione senza ghigliottine, senza sangue, senza fili spinati. E se si provasse?”, La Lettura del Corriere della Sera 20 novembre 2011

Intervista a Miren Etxezarreta

INTERVISTA A MIREN ETXEZARRETA

I partiti  sono obsoleti, speranza  nei   movimenti

Dal Il Manifesto 20 novembre 2011

«No, Zapatero non era obbligato ad obbedire ai diktat della Bce e del duo Merkel-Sarkozy: le alternative ci sono sempre», afferma sicura Miren Etxezarreta, professoressa emerita di eco­nomia applicata dell'Università autonoma di Barcellona e opinionista del quotidiano progressista Público. «Se fossimo in una situazione di as­senza di possibilità saremmo in una dittatura. Certo, ci sono commenta­tori influenti che sostengono che si deve accettare l'ideologia delle forze dominanti, statali e internazionali, ma mi rifiuto di accettare l'idea che la specie umana sia per la prima volta nella sua storia senza facoltà di scel­ta. Soprattutto se le ricette che dovremmo applicare senza discutere sono esattamente le stesse che ci hanno condotto a questa drammatica crisi».
Però il coltello dalla parte del manico ce l'hanno gli investitori internazionali: come si può reagire?
Incominciamo col dire che il debito pubblico dello stato spagnolo è basso: è il 60% del Pil. Il problema si trova nel debito privato, ben più grande. Ma perché la società               dovrebbe farsi carico del debito privato, cioè di comportamenti irresponsabili? E poi, anche ammesso che il  problema sia il debito pubblico, bisogna avere il coraggio di dire che non è possibile pagare interessi tanto alti. Senza avere paura di dichiarare l'in­solvenza: se non possiamo pagare, ricominciamo da zero.
Ma la dichiarazione di insolvenza dello stato non condurrebbe ad un im­poverimento generalizzato?
Ad un impoverimento delle classi medio-alte, forse. Ma quello che è certo è che le misure applicate sin qui hanno già condotto ad un peggiora­mento clamoroso delle condizioni di vita delle classi popolari. La società non è un tutto omogeneo, è divisa in classi: non dobbiamo dimenticarlo.
La parola d'ordine decrescita è quella giusta per i movimenti che lottano per un altro modello di sviluppo, fondato sulla giustizia sociale?
Confesso che sono scettica. Bisogna intendersi: in un'economia capita­lista la decrescita non ha senso, conduce solo al caos. Adesso siamo in de-crescita! In un sistema economico alternativo, il discorso cambia, e sono convinta che certamente l'economia dovrà essere molto più austera, ma attenzione: ci saranno cose che dovranno crescere. Come scuole, ospeda­li, fabbriche di autobus... Credo che l'alternativa fra crescita e decrescita sia falsa: quella vera è fra economia di mercato o socialmente pianificata.
Come giudica i movimenti che sono nati in Spagna negli ultimi mesi?
Li trovo molto migliori della sinistra istituzionale, inclusa Izquierda Unida, che si radicalizza sotto elezioni ma non ha dato buona prova quando ha governato qui in Catalogna, per 8 anni fino allo scorso maggio. I partiti attuali sono obsoleti e i movimenti sociali – che non sono nati con il 15-M, ma risalgono al ciclo di Seattle e Genova – mi sembrano i soli nelle condizioni di trovare forme adatte alle sfide di oggi  

venerdì 18 novembre 2011

Metropoli territoriale e sviluppo economico sociale


Metropoli territoriale e sviluppo economico sociale
Francesco Indovina

  1. Premessa: contenuti e organizzazione
Il numero della rivista si articola attorno al tema dello spazio metropolitano e agli effetti che la “costruzione” di un tale spazio può determinare su una situazione ad economia diffusa come  il Veneto.
Si affronterà questo problema attraverso alcune “tesi”, tuttavia ad introduzione si svilupperanno alcune osservazione sulle differenze ed evoluzioni delle diverse “civiltà urbane” e si cercherà di chiarire quali sono i fattori che hanno determinato il processo di metropolizzazione del territorio riprendendo brevemente, per questo argomento,  alcuni dei temi trattati su questa stessa rivista (Indovina, 2003).

  1. Diverse “civiltà urbane”
Nel momento in cui la maggioranza della popolazione mondiale vive e sempre più vivrà in “città”  verrebbe spontaneo affermare che la “civiltà urbana” ha prevalso. In termini generali tale affermazione descrive la realtà, tuttavia sarebbe un errore se con il termine “civiltà urbana” si volesse descrivere un fenomeno omogeneo. Non solo, con riferimento all’evolversi delle diverse epoche storiche, il termine ha indicato fenomeni diversi, ma anche nello spazio oggi si devono segnalare modalità di essere di questa “civiltà” abbastanza differenti.
Si spera sia chiaro perché non si faccia riferimento a “città” ma piuttosto ad un concetto più vago ma sicuramente comprensibile di “civiltà urbana”. Le differenze tra le città, infatti,  sono costitutive del loro essere e dipendono da fattori diversi (dalla geografia alla storia, dall’economia alla dotazione di servizi, ecc.). ogni città è diversa da ogni altra, anche se rispondono ad una stessa logica,  ma all’interno di una data “civiltà urbana” le pur diverse città rappresentano un’articolazione o una declinazione di un’unica concezione del vivere urbano.
L’esistenza di differenze sia riferite  alla “forma” che alle modalità di “vita” sembrano solo in parte discendere da differenze nel sistema economico, che, pur tuttavia, si assume avere un rilevante influenza nel determinare le precipue caratteristiche di ogni civiltà urbana. Il sistema dei “valori”, le relazioni di parentela, i concetti di convivenza e accoglienza e, più in generale, la “cultura”, in senso antropologico, il desiderio di chi governa di “somigliare” ad altri, il processo insieme di omologazione e differenziazione, fanno di ogni condizione urbana quasi un caso a sè.       
Spesso si fa riferimento alle “forme” (sia architettoniche che morfologiche della città) per riconoscere somiglianze o differenze; ci sono pochi dubbi che le forme possano esercitare una certa influenza sui comportamenti, tuttavia tale influenza non sembra determinante. Forme abbastanza omogenee danno luogo a organizzazioni sociali urbane anche differenti.
La “tradizione” urbana appare come qualcosa di più complesso: la storia, i processi sociali e politici, i meccanismi economici e la “cultura” determinano differenze sostanziali nei diversi episodi di civiltà urbana. Se fosse possibile identificare diverse civiltà urbane:  dell’Europa, dell’America del Nord, dell’America del Sud, della Cina, della Russia, dei paesi Africani con tradizione anglosassone o con tradizione francese,  ecc. si potrebbero cogliere non solo delle differenze, spesso notevoli,  tra di loro, ma anche all’interno di queste generali classificazioni sarebbe possibile individuare diversità non di poco conto.
Questo è vero non solo se si guarda alle “forme”, ma anche e soprattutto ai modi di vita, all’organizzazione della quotidianità, ai meccanismi di relazioni tra le diverse persone e tra le diverse articolazioni sociali. Insomma sono gli uomini e le donne che danno corpo e sostanza alla civiltà urbana, alla cultura urbana.           
Non solo ma possono cogliersi tra queste realtà delle traiettorie tra di loro diverse, nel pur sicuro  affermarsi dell’ “effetto urbano”. Si intende dire che ci sono elementi che accomunano questi differenti episodi di civiltà urbane insieme ad elementi fortemente diversificanti.
L’effetto urbano non va considerato soltanto dal punto di vista economico, sociale,  e nei modi di organizzazione del quotidiano, ma va considerato in uno spettro più ampio che comprende, per esempio, la concezione che si ha dell’ambiente, la preferenza per l’isolamento, la natura delle relazioni tra le persone, i modi di educare i figli,  ecc., e riguarda, in sostanza,   gli effetti che scaturiscono da una situazione tipicamente urbana e che non si riscontrano o si riscontrano con intensità minore in situazioni non urbane.
Nel modello urbano europeo, che ovviamente costituisce una semplificazione di una situazione differenziata ma avente dei connotati comuni, sono in atto dei processi abbastanza omogenei di quella che è stata chiamata la “metropolizzazione del territorio” (Indovina 2003). La ricerca, cioè, di una dimensione metropolitana non concentrata ma organizzata nel territorio (Fregolent, Indovina e Savino ,2005). Un fenomeno che in misura più o meno estesa si presenta in tutto il continente, ma, ovviamente, con caratteristiche diverse anche se centrate su quella che possiamo chiamare la metropoli territoriale. Il fenomeno di crescita metropolitana assume caratteristiche diverse e spesso non confrontabili tra quelle che si sono chiamate “civiltà urbane”  diversamente connotate.
Anche nel nostro paese la “civiltà urbana” sebbene con alti gradi di omogeneità presenta delle notevoli differenze, basti pensare a regioni con un alto numero di piccoli comuni o, al contrario, regioni che presentano prevalentemente comuni di una certa consistenza, tutto ciò in dipendenza di un differente asseto economico e sociale dell’agricoltura, questione rilevante in ordine alle modalità con la quale si vive la “città”. O ancora le notevoli differenze che caratterizzano le diverse regioni proprio in riferimento al senso che assume la vita urbana, la sua organizzazione e il suo governo; il significato differente assegnato allo “spazio pubblico”, ecc. 
In Italia, come altrove, il processo di metropolizzazione del territorio è in cammino, con forme diverse a secondo della struttura di partenza; il concentrare l’attenzione degli studiosi sulla “città di città (Nel.lo, 2001) è la chiara evidenza di una fenomenologia che solo in un’ottica sbagliata veniva caratterizzata come  “diffusione”, mentre mostrava il segno della costruzione metropolitana. Un processo in cammino da diversi anni, non omogeneo e  articolato: dove già è presente una “grande città” esso assume connotati diversi rispetto a situazioni territoriali dove non si sente il peso massiccio di un polo urbano ordinatore; dove forte è la presenza della produzione industriale la natura della nuova metropoli sarà diversa che nel caso in cui la forza economica del territorio sia fondata sulla produzione immateriale; ecc.

3. La metropolizzazione del territorio
In un certo senso si può dare per acquisito che la dispersione e la metropolizzazione del territorio non appartengono a stadi diversi,  ma si tratta di fenomeni tra di loro strettamente correlati. In sostanza la dispersione ha generato  la metropolizzazione del territorio.  Questa ultima ha evitato l’impoverimento della vita sociale e individuale che la dispersione poteva generare e, nello stesso tempo, ha ridotto gli aspetti negativi insiti nella dimensione della metropoli.
Con il termine di metropolizzazione si intende indicare la tendenza all’integrazione di diverse aggregati urbani e anche dei territori ad urbanizzazione diffusa, una modalità diversa e più allargata  di costruire interrelazioni e interdipendenze: una diversa modalità di produzione di “città”, di una nuova città, e di “metropoli”, di una nuova metropoli. La struttura territoriale metropolitana, inoltre, può essere assunta come espressione della cultura contemporanea; come la città compatta ha costituito la rappresentazione della visione del “mondo” dei due precedenti secoli (una città classista e insieme corporativa, segmentata e disgiunta, difensiva e aggressiva), la metropolizzazione del territorio dà corpo alla concezione del “mondo” di oggi caratterizzata dal problema dell’integrazione di diverse esperienze e dal legame multiplo.
Se per “area metropolitana” è possibile intendere un territorio le cui singole parti sono tra di loro integrate in relazioni alle diverse funzioni e secondo una struttura fortemente gerarchica, la metropolizzazione del territorio presenta connotati diversi: una maggiore integrazione, una minore gerarchia, relazioni a rete, ed multi direzionali.  
Si passa, cioè da una gerarchia hard ad una gerarchia soft  (Indovina, 1999), i movimenti di persone  non sono solo monodirezionali, dalla periferia al centro, ma diventano pluri-direzionali in tutte le direzioni comprese quelle dal centro alla periferia[1], come esito di diffusione nel territorio non solo di popolazione ma anche di attività, di funzioni commerciali, di servizi ecc. La tendenza, dunque, non è più quella di concentrare in un unico punto (città centrale) le funzioni principali, quelle economiche e dei servizi superiori, ma piuttosto di distribuire nel territorio ampio punti di specializzazione, diversificati ma, appunto, integrati tra loro, che fanno, come dire, un tutt’uno[2].
I processi di trasformazione del territorio e della città hanno origine da fattori diversi e da nuove  relazioni tra questi e il “resto”, aspetti spesso  non presi in considerazione  e non sempre di immediata percezione. Inoltre non va sottaciuto che ogni territorio, pur in un processo generale comune, presenta delle specificità locali che non ammettano una semplificazione  riduzionista.  In sostanza mentre una certa tendenza generale è in atto,  la concreta tipologia di trasformazione dipende dalla combinazione  e dal  peso relativo  dei fattori specific che operano in ogni singolo territorio.
Tra i fattori che hanno determinato la diffusione prima e la metropolizzazione dopo si vorrebbero segnalare:
- le modifiche nel processo produttivo: la crisi della “grande fabbrica” determinata dalle trasformazioni tecnologiche produttive e di consumo; di contro l’affermarsi della piccola e media impresa come sistema di produzione; lo svilupparsi di una “economia dei servizi”; il collegamento sempre più stretto tra ricerca scientifica, innovazione tecnologica e sviluppo produttivo; l’allargamento del mercato mondiale che ha determinato una nuova divisione internazionale del lavoro; il potere economico d’impresa focalizzato sulla “catena del valore aggiunto” da una parte, e sulla finanziarizzazione dall’altra.
Il processo di produzione delle merci tende  a disarticolarsi utilizzando al meglio le  specializzazioni “diffuse”[3]; il processo di produzione  ha bisogno di rafforzare e ampliare la propria rete di relazioni sia con i diversi segmenti che contribuiscono alla realizzazione della merce,  sia con una serie di “servizi” che, soprattutto  la piccola e media impresa, in generale non può produrre  al proprio interno; è cresciuto il bisogno di interdipendenze, sempre meno l’impresa è un mondo a sé, la sua vitalità è sempre più legata alle relazioni che riesce ad attivare in tutte le fasi del suo stesso processo produttivo.
Una forma dell’organizzazione della produzione che porta ad una frammentazione della “catena del valore aggiunto” con alcune  “centrali” in grado (in ragione di un potere economico, organizzativo e di mercato)  di trasferire a loro vantaggio la maggior parte del valore aggiunto prodotto nella filiera di produzione, mentre alle singole (spesso piccole e medie, ma non sempre) imprese appartenenti alla specifica “catena” hanno riconosciuto un “basso” valore aggiunto con gli effetti che questo comporta in termini di debolezza economica, di difficoltà ad innovare e di dipendenza[4].
Le “economie esterne”, di reciprocità,  non sono diventate irrilevanti, ma il raggio della loro influenza si è allargato in ragione delle nuove possibilità offerte dalle innovazioni tecnologiche,  dalle telecomunicazioni e dall’accresciuta mobilità delle persone.
- la diversificazione della rendita: la crescita del valore della rendita  costituisce, come è noto,  un fattore di espulsione de di re-insediamento, ma non dei soggetti marginali, che nel contesto della città  possono trovare situazioni adatte nei così detti interstizi urbani,  quanto dei soggetti  medi, siano essi  famiglie o attività economiche. In sostanza nel cuore delle città più grandi si riscontra una tendenza alla polarizzazione alta/bassa, sia dal punto di vista sociale che economico produttivo. Quello che in qualche modo può essere considerata una fenomenologia nuova non è tanto l’espulsione sociale, o delle  attività economiche,  ma piuttosto la dimensione del fenomeno, le motivazioni che lo caratterizzano e gli esiti che determinano.
- le modifiche nella vita quotidiana: si avanza l’ipotesi, in qualche modo verificata, che tali cambiamenti abbiano aumentato le  domande anche di nuovi servizi,  in senso lato, della popolazione  per effetto dei mutamenti nell’organizzazione del lavoro e  nella struttura della famiglia, per il prolungamento della vita, per la crescita dei single, per l’aumento del tempo non obbligato, per le nuove tecnologie che hanno investito la casa e il nostro quotidiano, per l’aumentata scolarità, per l'aumentata mobilità, ecc.
La maggior parte di tali  crescenti esigenze, possono essere soddisfatte solo all’esterno della stretta organizzazione familiare (comunque intesa) e portano ad una crescente domanda di servizi[5].
Nella nuova condizione di domanda di servizi, l’offerta tende a scegliere quella localizzazione non tanto vicina alla domanda, ma piuttosto comoda da raggiungere da parte degli utenti, cioè accessibile (un concetto di vicinanza non metrica). Funzionale a tale strategia è una relativa integrazione di diverse offerte  concentrate nello stesso luogo.  Quello che appare evidente, ai fini del ragionamento che si sta svolgendo in questa sede,  è che tende a prevalere una specializzazione “locale” per funzioni integrate (appunto polo del commercio dell’abbigliamento, polo del commercio di beni durevoli, ecc.).
Appare evidente che l’intreccio delle tre precedenti variazioni  è determinante per generare il fenomeno della metropolizzazione del territorio.
Risulta perdere valenza il fenomeno dell’agglomerazione: si sono ridotti i suoi vantaggi (per imprese e famiglie) mentre sono fortemente cresciuti i suoi svantaggi. La localizzazione produttiva dispersa costituisce una “politica d’impresa”, così come la dispersione delle famiglie risulta una “politica delle famiglie” determinata sia  dal calcolo economico che  dalla ricerca di condizioni insediative ritenute,  desiderabili. Non necessariamente, l'una e l'altra,  risultano vantaggiose per la collettività.
Come elemento importante di questa fenomenologia, va rilevato che una parte consistente della condizione urbana, in ragione dell’accresciuta mobilità delle persone, delle localizzazione dispersa ma ad alta accessibilità dei servizi, può essere realizzata ed ottenuta anche in una situazione di dispersione (fatto questo che costituisce un primo e importante gradino per la successiva  metropolizzazione del territorio).
In sostanza se si guarda alle tre precedenti variazioni, ai loro intrecci  e alle conseguenze che ne derivano ci si trova di fronte a molteplici   mosaici metropolitani, ciascuno magari  diversamente caratterizzato ma  tutti dipendenti da una stessa logica  così sintetizzabile: i risultati positivi dell’agglomerazione (di persone, di attività e di servizi)  oggi possono essere  realizzati, per effetto delle nuove tecnologie e della crescita della mobilità, anche in una situazione di dispersione; la dispersione, conseguentemente, assume il segno non già dell’isolamento ma della connessione e interdipendenza. Il segno forte del nuovo mosaico metropolitano è quindi una forte integrazione in un contesto di dispersione, esso è caratterizzato  dai seguenti caratteri comuni: esistenza di polarità (di servizi, produttivi, o per il tempo libero)  localizzate in ragione dell’accessibilità; accentuata mobilità pluridirezionale; eccessivo consumo di suolo; alto consumo di energia; uso dei territori “naturali” (non costruiti)come strutture “urbane” disponibili per la popolazione (Donadieu, 2000).
È possibile immaginare un territorio metropolizzato caratterizzato da diverse attività produttive diffuse, con polarità di servizio tendenzialmente specializzate, con dei centri di insediamento residenziale storico e tradizionali ma anche con insediamenti residenziali nuovi, sia concentrati che diffusi,  con una fitta maglia di collegamenti stradali (che magari ricalca storiche forme di organizzazione del territorio e che sfrutta i collegamenti agricoli del passato), attraversato da una fitta mobilità di persone, di informazioni e  di merci.
Nei nuovi territori metropolitani, non sono eliminate né le differenze tra le diverse zone (un tempo si sarebbe detto tra centro e periferia), né, ovviamente, le  gerarchie spaziali, ma queste ultime  assumono una diversa caratterizzazione: si passa, come già osservato,   da una gerarchia hard ad una gerarchia soft.
Mentre nel passato la “centralità” era espressione (anche misurabile) di massa (concentrazione di capitale produttivo, di servizi e di popolazione; flussi pendolari massicci; saldo sociale positivo; ecc.), oggi essa si caratterizza piuttosto come espressione di potenza. Ciò che caratterizza le nuove centralità è la concentrazione delle attività di governo, intese in senso lato, e di indirizzo. Sono i centri di governo dell’economia, della finanza, della cultura, dell’amministrazione, dell’informazione, della salute e cura, ecc., che costituiscono gli strumenti di costruzione  delle nuove gerarchie; tali centri non “muovono” solo una massa materiali (persone e cose) ma anche e spesso prevalentemente flussi immateriali (“indirizzi”, “progetti”, “informazioni”, “tecnologie”, “saperi”, ecc.) potenti nella determinazione delle tendenze, dei successi delle imprese, della qualità professionale degli individui, della qualità della vita, delle conoscenze comunicate, ecc. (e attraverso questa strada condizionano la vita, le possibilità di lavoro ed economiche e sociale  degli individui). 
I centri che all’interno dei territori metropolitani attraggono tali polarità di governo e di indirizzo devono offrire fattori localizzativi nuovi rispetto a quelli del passato, o, se si preferisse,  anche tradizionali ma con connotati nuovi. La qualità dei luoghi appare una delle variabili più importanti, ma vanno anche considerati: i collegamenti sia di lunga che di breve distanza, le strutture formative, i centri di ricerca, la “vitalità” urbana,  buoni teatri, club ricreativi, ecc. Ma tutte queste funzioni non necessariamente concentrati in un “punto” del territorio, ma possono essere  distribuiti nello spazio ampio purché facilmente accessibili. 
Si determina così un territorio fortemente interrelato, una città di città, con  i poli tra di loro collegati, con polarità specializzate ed anche di eccellenza, con uno o più  centri meno “vistosi”  (poco di massa) ma molto più potenti. Si tratta di un territorio in “rete” intendendo con questo termine la possibilità reale di collegamento tra zone, poli, individui e funzioni,  che utilizzino tutti i mezzi e gli strumenti disponibili (materiali e immateriali) e che  insistano su un  territorio con  “centralità” articolate.
Le relazioni territoriali, sono nella nuova realtà, molto intense, riguardano non solo la sfera della produzione ma anche quella dei servizi, delle attività di loisir, di quelli culturali e di formazione, il patrimonio “naturale”, ecc. Questa rete di relazioni, questa forma in parte nuova di utilizzazione del territorio, questa accentuata mobilità, questa minore gerarchia, questa maggiore articolazione funzionale del territorio,  costituiscono il tratto prevalente e caratterizzante dell’insediamento nel territorio metropolitano o come forse è possibile scrivere della metropoli territoriale.

4.                  Dieci tesi per la metropoli territoriale del veneto centrale
Di seguito si avanzano alcune tesi circa le possibilità e le necessità che caratterizzano la situazione del Veneto centrale, affinché possa realizzarsi un’evoluzione positiva in termini di sviluppo economico e di organizzazione del territorio.
Nessuna idea esaustiva sta dietro queste tesi, ma, a partire dalla conoscenza dei meccanismi di trasformazione del territorio, si è cercato di individuare quelle che si ritengono le questioni chiave. Non si tratta, quindi,  dell’esposizione di tutte le questioni che interesssano questa zona, ma, piuttosto,  si è tentato di individuare quelli che sono stati ritenuti i capisaldi concettuali e operativi per un’azione positiva adatta ad intervenire sia sugli elementi strutturali negativi sia sulla situazione determinata dalla crisi economica attuale.

Tesi n.1.  Il territorio metropolitano è da governare
Talvolta si fa riferimento alla necessità di costruire lo spazio metropolitano del Veneto centrale (città metropolitana, PaTreVe, ecc.). Sebbene non in forma compiuta il punto di partenza non pare possa essere, perché irrealistico, quello della costruzione di questo spazio, ma piuttosto quello di governarlo. Esso, infatti, è già una realtà..
Il Veneto centrale, infatti, in una forma che possiamo far discendere da un processo di auto-organizzazione ha già dato forma ad una metropolizzazione del territorio, certo non in modo completo, ma anche con molte delle caratteristiche generali  come prima descritte. Il fatto che la costruzione di questa nuova realtà territoriale sia il risultato di forze indipendenti ed autonome (economiche, sociali, culturali, inerenti i servizi, ecc.) che attraverso loro proprie e autonome decisioni hanno cercato di realizzare loro obiettivi ha determinato un esito con molti aspetti negativi e, soprattutto,  non è in grado realizzare le potenzialità esistenti.
La somma di scelte individuali e autonome non costruisce un buon territorio, anche se essa esprime le capacità dinamiche e innovative delle forze sociali operanti nel territorio. Bisogna prendere atto che la costruzione di questo territorio è avvenuta al riparo di ogni forma di “governo”, è avvenuta nell'assenza di una percezione politica (e spesso culturale) di quello che si muoveva e che stava avvenendo. Dall'altra parte le forze operanti hanno cercato di sfruttare a loro esclusivo vantaggio l'indeterminatezza politica, la concorrenza tra i diversi decisori pubblici, l'inefficienza del controllo della “legalità” di molte operazioni di trasformazioni del territorio e nella gestione delle  attività economiche, di un permissivismo ambientale quasi senza limite, ecc. La realtà e una situazione iperdotata di funzioni private e ipodotata  di funzioni pubbliche.        
Questa dinamica ha determinato l'esistenza di un territorio metropolitano che presenta non pochi elementi negativi (in parte già citati ma che vale la pena di ripetere: consumo di suolo, spreco energetico, costo elevato dei servizi da parte della pubblica amministrazione, struttura di relazioni interne ed esterne spesso carenti, ecc.) e, soprattutto, appare in attesa, per così dire, di trasformarsi in metropoli territoriali che, tuttavia, non è realizzabile in forma di auto-organizzazione.
Non sembri una questione di sottigliezza eccessiva porre l’accento che la non si tratta di costruire una metropolizzazione del territorio, poiché essa esiste già. Assumere questa realtà, piuttosto che pensare di costruirla, modificherebbe  sostanzialmente l’approccio politico, culturale e operativo.
Il problema di questa area, a questo punto, è quello di passare dall'auto-organizzazione all'organizzazione, il che comporta non solo la messa a sistema di quanto è stato realizzato ma anche notevoli correzioni, la definizione di ruoli territoriali coerenti, l'individuazione di regole di trasformazione, l'integrazione di nuove funzioni. In sostanza si tratta assumere che si tratta di una realtà in attesa di essere governata per realizzare le sue molte potenzialità; la realizzazione, cioè, di una metropoli territoriale.

Tesi n. 2. Nuove forme di governo
L'articolazione dei “poteri territoriali”, nel nostro paese (ma non solo) non sono il migliore viatico per il governo di una possibile metropoli territoriale. La struttura del governo territoriale è assestata su una situazione oggi non più esistente, essa si basa, infatti, sulla presupposta autonomia di ogni centro (comune) e sull'ipotesi che le relazioni di ogni centro  con il resto (del mondo)  siano minime e comunque non influenti sulla realtà locale.. Per intenderci ed estremizzando essa fa riferimento ad una situazione territoriale di campagna  con all'interno degli agglomerati urbani, mentre la situazione, esaltata nel caso specifico del Veneto, può meglio descriversi come un territorio caratterizzato da unica città con qualche frammento di campagna.
Bisogna osservare che da anni questa discrasia è stata rilevata (si rimanda ancora al citato paragrafo del saggio sulla metropolizzazione apparso su questa rivista), ma la persistente gelosia dei poteri territoriali esistenti, nonché l'ignavia dei governi centrali,  non ha permesso di mettere mano ha una ragionevole riforma di questa situazione. Non è un caso che nonostante leggi, reiterazioni di principi, scelte politiche ecc. le “città metropolitane” restano soltanto delle espressioni letterarie, senza nessun rilievo ed effetto sull’organizzazione del territorio[6].
L'Italia possiede una serie molto ampia di strumenti di pianificazione, ma gli unici con vero potere sono quelli comunali, gli altri definendosi di “coordinamento”, il che la dice lunga sul loro reale potere, non riescono ad incidere che in misura minima. Ma una situazione di metropoli territoriale ha bisogno di un governo unitario, in grado si superare, in una visione di maggior respiro, gli interessi puntuali e a questi offrire una prospettiva migliore.
Si vuole affermare, con forza, che la possibilità di utilizzare al meglio le condizioni generate dal processo di metropolizzazione del territorio impone la individuazione di un livello di governo complessivo e che sfugga agli interessi localizzati in un ottica di interesse dell'insieme dell'aria. Un governo che abbi  forza per coordinare l'articolazione delle decisioni autonome, che abbia il potere di determinare le scelte dei diversi operatori pubblici che operano in un qualche regime di autonomia, che sappia determinare scelte opportune per esaltare le condizioni di metropoli territoriale.

Tesi . 3. Polarizzazione e infrastrutturazione
Sostanzialmente gli obiettivi del governo della metropoli territoriali potrebbero essere sintetizzati nel rendere, per quanto possibile, identiche le opportunità dei singoli punti del territorio e collegare in modo efficiente ed efficace tutti i punti del territorio. Non si tratta ovviamente di far diventare ogni punto del territorio omologo ad ogni altro, o, da un altro punto di vista, ogni localizzazione indifferente al luogo, ma al contrario esaltare la “specificità” trasformandola in una opportunità per tutto il territorio., È evidente che si tratta di obiettivi relativizzati, la mappa del territorio non sarà mai piana, ma le sue rugosità (le diverse specificità) dovrebbero costituire i nodi delle reti e la condizione base della metropoli territoriale.  
La rottura delle gerarchie territoriali, o il passaggio, come prima definito, dalla gerarchia hard ad una gerarchia soft, dovrebbe comportare che  molti punti del territorio diventino luoghi di insediamento di funzioni (servizi, attività economiche, ecc.) che servono l'intera area. Tanto più questi “poli” si moltiplicano tanto più il territorio risulta metropolizzato e aumenta l’offerta dei servizi e crescono le opportunità di sviluppo economico, sociale e culturale.
Perché questo avvenga, perché  le funzioni localizzate siano al servizio di tutta l'area è necessario che ciascuna di queste sia accessibile, l'accessibilità nelle diverse sue forme, costituisce una delle caratteristiche fondamentali, il caposaldo, si potrebbe dire,  di una metropoli territoriale. Le reti infrastrutturali sia fisica che telematica, in tutte le loro accezioni costituiscono il passo fondamentale per far uscire il territorio metropolizzato, cioè fondato sull'auto-organizzazione, verso la metropoli territoriale, fondata sull’organizzazione. Le reti, cioè, da una parte dovrebbero “rispondere alla domanda” esistente e, dall'altra parte,  dovrebbero creare  nuove opportunità territoriali e se del caso modificare la domanda preesistente.
Il governo della metropoli territoriale, quindi, dovrebbe porsi gli obiettivi di moltiplicare le polarità nel territorio e infrastrutturare il territorio in funzione non delle gerarchie esistenti ma della loro riduzione  per rendere, per quanto possibile, omogeneo il territorio (fermo restando differenze orografiche, storiche, ecc.).   

Tesi n. 4. Dai distretti all’integrazione e all'innovazione
La perdita di potenza della forza dell’agglomerazione, così come ha inciso e incide profondamente nella densità urbana, incide anche nell'economia distrettuale, inoltre, questa, nella ricerca di situazioni più convenienti (delocalizzazioni) ha teso a disgregarsi.
L'economia di piccole e medie imprese, inoltre, nella maggior parte dei casi, sembra soffrire per carenza di integrazione e di innovazione (le responsabilità di questi fenomeni sono diversi ma non è questo il luogo per approfondire tale tema). La situazione di piccole e medie imprese, infatti, presenta notevoli vantaggi sul piano della flessibilità e dell’organizzazione, ma mostra forti carenze sul piano dell’innovazione.
Pare in qualche modo assodato che il “sistema” di piccole e medie imprese ha necessità di un processo evolutivo che lo porti sia verso dimensioni maggiori, sia verso processi di integrazione e di  innovazione. Si dà per acquisito che, tranne casi particolari, questa evoluzione non è nelle possibilità delle stesse piccole e medie imprese.  In questa situazione c'è la possibilità di trovare sostenitori di una sorta di darvinismo economico, che cioè accetta la “selezione economica” delle imprese come un meccanismo di miglioramento della struttura economica, data la sopravvivenza delle imprese  “migliori”. Da una parte va sottolineato che questa soluzione presenta un costo sociale ed economico non sopportabile e, dall'altra parte, non è detto che a sopravvivere siano le “migliori”. È possibile  prevedere un intervento diretto dello Stato (o della Regione) che nella situazione data e per esperienze passate non sempre positive, appare sconsigliabile: il sistema di selezione difficilmente risulterebbe oggettivo ed efficiente.
Un punto di vista accettabile non è tanto quello del “salvataggio”, quanto piuttosto quello di creare le condizioni perché in forma autonoma le imprese in difficoltà riescano a salvarsi e a migliorare la loro situazione.
Nella situazione della metropoli territoriale c'è spazio per un intervento diretto e a guida pubblica teso a creare le condizioni opportune perché le imprese in situazione migliori  possano realizzare obiettivi di sviluppo lungo la linea indicata.
Le reti (in tutte le loro versioni) costituiscono un potente mezzo d’integrazione economica  e, se fosse  possibile  usare un paradosso, possono fornire l'occasione per la strutturazione di quello che è possibile chiamare  “distretto non concentrato”, che collocherebbe l’economia distrettuale in una dimensione adeguata a tempi e, contemporaneamente, utilizzerebbe il patrimonio di esperienze professionali e imprenditive del passato. È indispensabile, inoltre,  che si dia corpo a centri di innovazione e di diffusione dell'innovazione effettivamente operanti, con efficacia ed efficienza, modificando profondamente  situazioni nelle quali le ragioni sociali non corrispondano alle effettive operatività. In ultimo enti pubblici associati, secondo le loro specifiche competenze, devono contribuire a determinare un clima culturale in grado di influenzare le scelte delle singole imprese nella direzione dell'innovazione e dell'integrazione.
La metropoli territoriale con la moltiplicazione dei poli e con la loro qualificazione costituisce un tessuto adatto per modificare la situazione delle piccole e media imprese a condizioni che siano fortemente sviluppate le reti,  siano effettivamente messi a punto centri in grado di promuovere con efficacia il trasferimento d'innovazione promuovendo l’integrazione e innovazione tecnologica delle imprese e al contempo  si contribuisca a creare un clima favorevole all’innovazione.

Tesi n. 5. La logistica
Una metropoli territoriale che vuole continuare ad essere  anche zona economica di esportazione non può non avere un punto di forza nella logistica. Le attrezzature esistenti pur presentando un grande potenziale non paiono ancora adeguate a sostenere l’economia della zona e, contemporaneamente, l’economia della zona non pare sufficiente a sostenere una struttura logistica avanzata e di dimensioni tali da garantirsi economie di scala. La soluzione di questa contraddizione, tuttavia, va trovata nello sviluppo del porto al servizio dell’economia non solo della metropoli territoriale ma di grande parte del Nord d’Italia. L’utilizzazione di alcune delle aree di Porto Marghera a questo scopo, nonché i programmi innovativi proposti, sembrano muoversi in questa direzione, tuttavia tale struttura logistica vive di integrazione, ha cioè bisogno di reti di supporto che paiono non solo oggi insoddisfacenti ma carenti nei programmi futuri.
Un ragionamento simile può farsi per l’aeroporto di Venezia che costituisce una struttura di servizio sicuramente per la metropoli territoriale, ma anche  per un’area più ampia.  
La metropoli territoriale costituisce, proprio perché a suo fondamento si colloca lo sviluppo delle reti, un contributo notevole alla realizzazione di impegnativi e innovativi programmi di sviluppo della logistica, contemporaneamente, la realizzazione di una logistica avanzata ed efficiente costituisce un apporto rilevante per il consolidarsi della struttura economica della zona. Una correlazione, questa, che può diventare un punto di forza sia nella realizzazione della metropoli territoriale sia nello sviluppo economico di tale realtà territoriale, sia nell’affermarsi di una logistica avanzata.

Tesi n. 6. Le nuove energie
L’economia della metropoli territoriale ha un punto di forza nella struttura economica realizzata negli anni passati nella zona, una realtà che è stata, essa stessa, la materia prima sulla quale si è iniziato a costruire la metropolizzazione del territorio, tuttavia oggi, come già rilevato, sembra necessarie emergano nuove energie umane e professionali.
È sempre difficile, o può essere espressione di faciloneria, indicare quali potrebbero essere i “nuovi settori” economici sui quali l’economia della zona dovrebbe assestarsi. Tuttavia qualche indicazione molto generale è possibile individuare sia nei processi economici generali sia da quanto già avviene nella zona. È possibile individuare attività il cui sviluppo è collocabile in tempi medio-lunghi, come quelli legati all’energie rinnovabili da idrogeno, o quelli, forse già più immediati, legati all’utilizzazione in vari settori delle nano-tecnologie; altri settori non possono non far riferimento alla tradizione dell’economia della zona (tessile e abbigliamento e meccanica, mentre più complesso appare il comparto della chimica).
Lo sviluppo di queste attività non può che far perno sulle energie umane e professionali  che la zona riuscirà ad esprimere, ma, non si tratta di patate, ma della capacita di sollecitare attraverso la  creazione di nuove opportunità  nuove energia umane. Nel passato questa zona è stata una formidabile creatrice di nuove energie professionali e imprenditive che hanno garantito anni di crescita economica e di una dinamica della demografia delle imprese sempre positiva. Distorsioni socio-culturali hanno pesato negativamente su una prospettiva di lungo periodo, resta il fatto un tessuto umano capace rischia di frantumarsi e disperdersi infruttuosamente.
Va sollecitato, e questo costituisce un impegno politico e delle istituzioni, un processo di innovazione, e una nuova cultura d’impresa, le professionalità maturate nella fase dell’espansione e che oggi rischiano di deperire devono essere rafforzate con un’iniziative finalizzata allo scopo.
Il passaggio dalla precedente struttura economia della zona ad una nuova struttura economica, adeguata anche alla nuova situazione dell’economia mondiale,  non può che avvenire appoggiandosi a tre punti forti: sulle nuove energie imprenditoriale e professionali che la zona riuscirà ad esprimere; sulle nuove condizioni di organizzazione territoriale e infrastrutturale che potranno essere realizzate nell’ambito della metropoli territoriale; sui possibili trasferimenti di innovazione promossi.

Tesi n. 7. Il sistema dell'istruzione
La realizzazione del processo di strutturazione di una nuova economia di cui si è detto prima deve trovare un ulteriore punto di forza in un innalzamento della professionalità delle energie umane già impegnate nei processi produttivi e in una sempre maggiore qualificazione delle nuove generazioni. Come è noto la struttura sociale della zona soffre dell’esistenza di un deficit di preparazione culturale, a questo deficit dettato da “atteggiamenti” sociali e culturali deve aggiungersi una probabile non adeguata situazione delle strutture a cui sono demandati questi compiti.
È inutile far riferimento a processi di innovazione se le strutture di formazione non corrispondono a questo obiettivo. La scuola, in ogni ordine e grado, oggi soffre di una carenza di mezzi, di un’indeterminata programmazione, di una incerta elaborazione di contenuti.
La metropoli territoriale se volesse raggiungere gli obiettivi possibili sul piano dello sviluppo economico e sociale deve porre attenzione a questo aspetto, il che comporta non tanto una rivisitazione dei programmi allo scopo di esaltare aspetti identitari, ma piuttosto un impegno per superare i limiti di preparazione professionale e culturale della zona.
L’idea di un ateneo metropolitano sembra un passo adeguato in questa direzione purchè esso non costituisca un’esaltazione della “massa critica”, ma piuttosto si manifesti come un processo di razionalizzazione e di realizzazione di nuove esperienze. Non si tratta tanto di diffondere nel territorio corsi di laurea, master ecc. ma di determinare le condizioni perché l’Ateneo metropolitano presenti una molteplicità di punti di eccellenza, perché la dislocazione nel territorio sia funzionale agli obiettivi formativi e non risponda alle rivendicazioni ambiziosi di singoli amministratori locali, perché le localizzazioni  nel territorio assumano qualità e le strutture siano adeguate ad un corso universitario.
La formazione professionale o la “ri”formazione professionale ha bisogno di una nuova progettualità e di una nuova finalizzazione, deve da perdere quella che oggi pare la sua caratteristica principale essere ammortizzatore sociale e non già momento efficiente di riqualificazione.
La metropoli territoriale proprio per la sua natura di strumento di “governo” e di qualificazione del territorio verso polarità diverse e qualificate costituisce lo strumento perché la programmazione e localizzazione delle strutture di formazione, di ogni ordine e grado, sfugga alla settorialità per trovare giusta integrazione, con i riconosciuti livelli di autonomia, in un ambito generale di bisogni e di  opportunità.
 
Tesi n. 8.  Il patrimonio  culturale
Come è noto il patrimonio storico e culturale dei territori della metropoli territoriale è ricchissimo, tra i più ricchi dell’intero paese. Esso costituisce una “ricchezza”, quello che potremmo chiamare un “capitale culturale” o anche, come è stato chiamato in altri periodi un “giacimento”, tuttavia l’ottica con la quale spesso si fa riferimento ad esso è quello della “valorizzazione”, esso cioè deve rendere in termini economici (non a caso i termini usati per evocarlo a questo particolare aspetto fanno riferimento).   Mentre non deve essere escluso che tale patrimonio “renda”, l’ottica, tuttavia, non può essere soltanto questa, si tratta di un patrimonio che deve qualificare anche la cultura della metropoli territoriale e dei suoi abitanti.
La metropoli territoriale costituisce, in quest’ambito, un potente strumento di messa in circolazione del patrimonio culturale ai fini della qualificazione della cultura dei suoi abitanti. Non è necessario mettere in discussione i “diritti” locali (delle amministrazione o anche dei privati, enti associazioni, ecc.) ma piuttosto sarà utile creare le condizioni di integrazione e di utilizzazione più opportune. In questo quadro la moltiplicazione dell’accessibilità diventa  strumento di governo e di esaltazione del patrimonio stesso.      

Tesi n. 9. La metropoli territoriale e la salvaguardia del territorio
La diffusione della funzioni nel territorio proprio per la sua natura attuale di autorganizzazione presenta alcuni aspetti negativi, primo tra tutti il consumo di suolo. Il passaggio da una situazione di autorganizzazione ad una situazione organizzata costituisce da questo punto di vista un salto verso soluzioni più sostenibili in generale e tali da garantire un uso razionale delle risorse territoriali e la salvaguardi del territorio stesso.
Una struttura reticolare funzionale determina una tendenza all’intensificazione pur mantenendo una situazione di bassa densità, sono proprio le opportunità offerte da un territorio organizzato e funzionalizzato che può spingere le scelte individuali delle famiglie, senza abbandonare loro specifiche preferenze per determinate forme di insediamento, a una migliore dislocazione sul territorio a vantaggio sia della propria condizione che della stessa organizzazione spaziale. Ovviamente i processi di organizzazione devono essere accompagnati da nuove regole che facilitino  un uso più parsimonioso del territorio e che contemporaneamente permettano entro regole stabilite, il manifestarsi dei processi innovativi delle pratiche sociali relative all’abitare.
Va sicuramente controllato e riorganizzato la localizzazione delle attività produttive, tenuto conto, tuttavia, che probabilmente le tradizionali “aree industriali” o produttive non corrispondono più alle necessità delle imprese o di molte  imprese, e che quindi sarà necessario individuare  soluzioni nuove e più corrispondenti alle esigenze dei nuovi processi produttivi e alla loro nuova organizzazione.
I poli di eccellenza e di servizio, proprio perché si pongono come polarità al servizio di tutta la metropoli territoriale troveranno sempre più conveniente la loro localizzazione nei punti di maggiore accessibilità, ma essendo proprio dell’organizzazione della metropoli territoriale la moltiplicazioni di tali poli, la questione andrà analizzata in dettaglio.    

Tesi n. 10. Organizzazione del territorio e  sviluppo economico, sociale e culturale: la governance
Il riferimento alla governance spesso si basa su una rappresentazione non realistica dei processi reali. Già all’interno dell’impresa, dove tutto dovrebbe essere facile data l’esistenza di un unico obiettivo unificante, la governance deve fare i conti con gli interessi particolari dei singoli soggetti (i diversi segmenti delle imprese, le sue diverse funzioni, i singoli dirigenti che perseguono anche strategie personali proprie) i cui obiettivi parziali spesso mal si combinano con quelli  parziali degli altri. A  livello territoriale, dell’organizzazione del territorio,  la cosa appare molto più complessa  i singoli portatori di interessi, appunto portatori d’interessi singoli, mal si combinano con  ogni altro e molto spesso sono tra di loro concorrenti.. Detto questo, tuttavia, va riconosciuto che nei processi di organizzazione del territorio e nel governo della metropoli territoriale i soggetti attivi, e i soggetti che subiscono gli effetti di determinate scelte,  ciascuno dei quali può portare un contributo alla realizzazione della migliore organizzazione della metropoli territoriale, contemporaneamente, tuttavia, ciascuno cercando di utilizzare a proprio fine il processo di governance può determinare dei punti di attrito fino a vere situazioni di crisi. Per altro, data la numerosità dei soggetti,  le relazioni molteplici che legano questi soggetti e  i fenomeni di feedback che spesso caratterizza le relazioni e le risposte agli stimoli, non è pensabile effettuare  una “previsione” precisa negli esiti complessivi e parziali di singole e determinate politiche.
In questa situazione  una relazione governo/governance appare del tutto auspicabile. Una relazione cioè che assume una polarità di governo (forte) che tuttavia svolge anche un’azione di governance allo scopo di risparmiare risorse, garantire (per quanto possibile) esiti positivi e utilizzare opportunamente la spinta dei singoli soggetti.

5. Qualche considerazione conclusiva   
La prima di queste considerazioni vuole richiamare l’attenzione sulla natura della metropoli territoriale così come è stasa trattata in questa sede. Si spera sia risultato chiaro che questa forma di organizzazione e di governo del territorio costituisce, insieme, una risposta ad esigenze già manifeste e la determinazione di nuove opportunità sia sul piano dello sviluppo economico, che su quello della qualità della vita degli abitanti, che, ancora, sulla salvaguardia del territorio. In un momento nel quale si impone una trasformazione della struttura economica della zona, la costituzione della metropoli territoriale può costituire, di per sé, un mezzo per facilitare questo processo di trasformazione.
L’economia mondo presenta degli elementi pericolosi di crisi, il “niente sarà come prima”, che spesso di sente ripetere, non può essere, come spesso pare sia interpretato, come una sorta di “mutamento tecnico”, se ha senso l’affermazione di una modifica rispetto al passato questa non potrà che essere complessiva, anche se non è chiara la direzione che questa potrà prendere. L’atteggiamento prevalente nel nostro paese, tuttavia, sembra essere quello della “resistenza”: resistere fino a quando la macchina non riparta. L’esito di un simile approccio, pare si possa convenire,  ci consegnerà un “dopo” non solo diverso dal prima ma sostanzialmente peggiore. Dentro questa situazione una struttura territoriale in grado di mobilitare energie nuove, di migliori i livelli di efficienza, di determinare maggiori integrazioni, innalzamenti culturali e professionali, non rappresenta in sé la soluzione alla crisi, ma può contribuire ad una fuoriuscita da essa in modo innovativo.
Proprio nell’ottica precedente la metropoli territoriale non è stata interpretata solo dal punto di vista “territoriale” ma si è cercato di farle assumere il connotato di una nuova organizzazione del territorio in direzione di una nuova organizzazione economia-sociale.
Non di economicismo, bieco economicismo (come si dice) si tratta, ma di un punto di vista che non cerca di distinguere l’aspetto territoriale da quello economico, da quello sociale e da quello culturale. La città ha sempre rappresentato questo insieme intrecciato, lo stesso non può non avvenire per le nuove forme urbane (e metropolitane) che rispondono alle nuove condizioni.
L’attenzione politica e la buona capacità di governo devono essere significativamente segnate dalla capacità di “governare le trasformazioni”, sono le trasformazioni in atto che vanno guidate avendo chiaro quali possano essere e debbano essere gli esiti di governo per raggiungere migliori e qualificate situazioni nuove. L’organizzazione del territorio non può assumersi come stabile (non lo è neanche il paesaggio), ma piuttosto in continuo mutamento, l’obiettivo (politico e di governo) e dare a questa trasformazione obiettivi di miglioramento generale promuovendo a questo scopo le opportune politiche (territoriali e no).
Nel caso specifico i processi di auto-organizzazione hanno di fatto determinato la metropolizzazione del territorio, che non costituisce, tuttavia, un “ordine” territoriale nuovo, ma piuttosto una modalità attraverso la quale i diversi interessi hanno cercato di realizzare i loro obiettivi, insensibili sia agli obiettivi di ogni “altro”, sia agli obiettivi generali. Non volendo un’ulteriore degenerazione del territorio, su questo tessuto di trasformazioni in atto appare necessario innestare un processo di nuova organizzazione, appunto la metropoli territoriale, in grado di realizzare gli obiettivi generali ai quali più volte si è fatto riferimento, e contribuendo a processi di trasformazione complessiva, affinché il futuro non solo sia diverso rispetto al passato  ma sia anche migliore.   



Bibliografia
J. Borja, M. Castells (1997), Local & Global, Earthscan Publications Ltd, London (trad. Italiana, La città globale, De Agostini, Novare, 2002)
M. Castells (1989), The informational City: Information Technology, Economic Restructuring and the Urban Regional Process, Blackwell Ltd, Oxford
P. Donadieu (2000), “Canpagnes et nature urbaines”, in T. Paquot, M. Lussault, S. Body-Gendrot (direzione), La ville et l’urbain. L’état des savoirs, Edisions la Découverte, serie L’etat des savoir, Paris 
F. Indovina (1999), “Le trasformazioni metropolitane. Alcune riflessioni a partire dal caso catalano”, in F. Indovina (a cura di), Barcellona. Un nuovo ordine territoriale, F. Angeli, Milano
F. Indovina (2003), “La metropolizzazione del territorio. Nuove gerarchie territoriali”, in Economia e società
    regionale – Oltre il ponte, nn. 3-4, F. Angeli, Milano;
L. Fragolent, F. Indovina, M. Savino (2005), L’esplosione della città, catalogo della mostra stesso
   titolo, Compositori ed., Bologna;
O. Nel-lo (2001), Ciutat de ciutata, Editorial Empùries, Barcellona






[1] Usando ancora questa terminologia  che, tuttavia, risulta obsoleta nella nuova situazione insediativa.
[2]              Per i riferimenti alla letteratura sull’argomento si rimanda al $ 3 del saggio prima richiamato e pubblicato su questa rivista (Indovina, 2003).
[3]              Castells (1989) in un sua ricerca ha individuato come caratteristica della nuova fase industriale la “capacità tecnologica e organizzativa delle aziende di dividere il processo produttivo in diverse dislocazioni, ricreando l’unità del processo tramite le telecomunicazioni …” (Borja, Castells, 1997).
[4]           Il processo prima delineato non porta alla conclusione che la scala di produzione sia indifferente, ma piuttosto che si sono modificate le condizioni per realizzare tali economie di scala. Le economie di scala non si realizzano concentrando la produzione, ma controllando la catena di produzione del valore aggiunto.

[5]              Da una parte si afferma un esasperato individualismo e dall’altra parte cresce la necessità, anche per realizzare gli obiettivi individuali, di servizi collettivi. Questa che può sembrare una discrasia, come dire, percettiva, in realtà appare come la proiezione compiuta del meccanismo sociale a livello del territorio. In questo senso cresce la necessità per la “condizione urbana”.  
[6] Non si tratta solo del  caso italiano; a consolazione  si osservi che il “piano metropolitano dell'area di Barcellona”, in elaborazione da più di quaranta anni (in vari versioni e in varie situazioni di governo regionale) è stato approvato solo poche settimane fa. Va, tuttavia ricordato, che altri paesi si sono dotati di strumenti di governo in qualche modo efficienti sul piano territoriale.