domenica 30 giugno 2013

Partiti, già andati

All'interno dei maggiori schieramenti, anche se affrontando temi diversi, si è aperta una discussione che pare distruttiva. Una democrazia ha bisogno di corpi intermedi, i partiti sono fondamentali, senza di essi lo sbocco è  sicuramente autoritario.

Nel PDL, Berlusconi vuole rifare Forza Italia; lo spreco di motivazioni, il richiamo allo spirito originario, l'esaltazione del liberismo (che è stato coartato dagli alleati, leggi AN), non è che un coro assordante. Pare che il PDL non si più una sigla attrattiva (parole di Berlusconi), la conseguenza logica sarebbe la sua scomparsa, ma non è così, il Popolo della Libertà resta il luogo per cementare alleanze (parole, sempre, di Berlusconi). E' una contraddizione? ma non fa niente.Il fine è diverso: riaffermare, in un ambito di fedelissimi, la leadership di Silvio Berlusconi, di fatto appannata e quasi contestata di fatto dentro il PDL. Una leadership fondamentale da giocare a livello di governo e in prospettiva, dopo la riforma costituzionale che alla fine mi pare finirà per prevedere una qualche forma di presidenzialismo (magari pasticciata), a livello elettorale a salvaguardia dei danni giudiziari del condannato Silvio Berlusconi.

Ovviamente entro questa trasformazione del PDL si sta giocando una partita di potere, che viene presentata come uno scontro tra falchi e colombe, ma che in realtà è una partita di posizionamento: prendere posto per non perdere ... potere. La cosa non è priva di contraddizioni, intanto da Forza Italia sarebbero esclusi gli ex AN, ma non basta anche i "socialisti" (alla Brunetta) non sarebbero ben visti. Le "colpe" sarebbero ideologiche (troppo scarso liberismo, per esempio, o vizio di statalismo, ecc.) ma in realtà è questione di posti a sedere.

Il M5*, vive un momento di grande tensione, ma anche di disaffezione. Il "verbo" del capo non sembra trovare quel consenso iniziale. Non si tratta solo della diaspora di deputati e senatori, ma di un ridimensionamento complessivo del consenso. La questione non è solo di voti, e quindi di successo, ma di  linea politica. Un movimento che ha nel suo programma di sbaragliare tutto, che nega la possibilità di  alleanze, o ottiene la maggioranza assoluta (anche in breve tempo) o è condannato alla deriva  o è costretto ad alleanze, ma perdendo consenso.

I consoli Grillo e Casaleggio fanno finta di credere ancora alla missione catartica, ma la ragione dovrebbe suggerire il contrario. Ma non possono uscire dalla loro "missione". Sanno che anche un qualche vittoria locale può esaltare il momento, ma non cambia la situazione. Diciamo che sono in un pasticcio da cui usciranno ridimensionati e quindi finiti nel loro spirito originale

Il PD ha in corso una discussione che può sembrare incomprensibile, ma che in realtà nasconde non solo un problema di potere, ma anche un cambiamento della natura del partito. Il "segretario", che verrà eletto da una consultazione aperta, è anche il candidato "primo ministro"? questa discussione impegna il gruppo dirigente, compresi i leader "ritirati": Potrebbe apparire solo una questione di potere (Matteo Renzi, contro tutti), né di una complessa e complicata strategia per ostacolare sempre Renzi, ma investe la natura del partito. Intanto la battaglia si combatte sull'ipocrisia: Renzi è sicuramente il candidato del partito alla guida del governo, ma non può essere il segretario; o ancora Renzi segretario indebolirebbe il governo Letta. Tutte cose vere, ma usate per secondi fini.

Mi pare sia in gioco la natura del partito. Sarebbe del tutto naturale che il segretario del partito fosse anche il candidato alla guida di un eventuale governo, ma questo avrebbe bisogno di un gruppo dirigente coeso, democratico ma rispettoso della volontà della maggioranza, cioè del segretario. Insomma una situazione pari al PCI di Togliatti e Longo (dopo non è stato più così). Separare le due cariche ha solo lo scopo  di costituire due poli di potere (partito e governo) e lasciare l'iniziativa al partito (è questo che sostiene il gopverno), cosa che non vuole Renzi (che già si sente capo del governo e per questo vorrebbe anche la segreteria del partito affinché potesse essere libero nelle sue decisioni). Ma unire le due cariche, nel contesto attuale, significherebbe ridurre il partito a comitato elettorale del premier.

giovedì 27 giugno 2013

La musica non cambia, Enrico Letta suona sempre gli stessi strumenti

Governo nuovo ma musica vecchia. Per ritardare l'aumento dell'Iva il governo ha avuto una grande pensata: aumentare la percentuale dell'aumento dell'anticipo dell'Irpef, e provvedimenti simili: tartassare i cittadini (se ho letto bene dai giornali risulta che per qualche imposta l'anticipo si incrementa fino al 110%, un vero miracolo).

Ma perché abbiamo mandato in panchina il governo Monti per poi giocare la stessa partita? non viene in mente al governo che invece di chiedere sempre sacrifici ai cittadini forse sarebbe possibile, utile e necessario chiedere qualche sacrificio ai nostri creditori? Una ristrutturazione del debito, o la richiesta di posporre il pagamento di qualche anno sarebbe veramente impossibile? Non risolutivo ma almeno permetterebbe di attivare i tamponi a cui pensa il governo.

E' impensabile una cosa del genere. Il fatto è che tutti i governi hanno più rispetto per gli speculatori e i ricchi che per la popolazione che li ha votati. Non fa eccezione (come potrebbe essere)?) il governo Letta-Alfano, sopravvisionato dal condannato Berlusconi.

martedì 25 giugno 2013

Nuvola di ottimismo o inconsapevolezza?

Si fa  veramente  fatica a capire cosa succede nella nostra (e) società e non è chiaro il messaggio che ci viene comunicato. 

Apri un qualsiasi giornale, non importa la sua coloritura politico,  le notizie che ti vengono sbattute in faccia sono quelle dei milioni dei disoccupati, dell'altissima percentuale dei giovani che non studiano e non lavoro, migliaia di imprese che chiudono, migliaia di vertenze, pensionati che cadono in povertà, suicidi per indigenza, chi ruba pane e formaggio per fame, ... insomma ci viene trasmesso un panorama di disastri sociali ed economici. La crisi nei suoi aspetti più vistosi e drammatici. Questo comunicano cronache, editoriali, corsivi, ecc.

Ma se continui a sfogliare il giornale è arrivi, per esempio, alla pagina sportiva leggi di giocatori pagati diecine di milioni di euro, un momento di spaesamento. ma se torni in dietro alle pagine della moda, eleganza e stile eccoti che ti vengono offerte scarpe a 1.500 euro, vestiti  a 80 euro, compatibili con la crisi, ma anche vestiti il cui prezzo si può sapere solo se interessato, il che lascia presupporre un prezzo molto alto, orologi da 5.000 euro e maggiori. Insomma hai un momento di spaesamento, non capisci come questi prezzi siano coerenti con la crisi delle prime pagine. 
Ma non è solo questo, in realtà sembrano ci siano due paesi, e non mi riferisco alle diseguaglianze che sono inaccettabili ma comprensibili, anche nei comportamenti, ma come dire del paese normale da una parte investito dalla crisi e lo stesso paese che si comporta come se la crisi non esistesse.
Capisco che siamo tutti sottoposti alla "propaganda"  dell'uscita del tunnel o che presto tutto tornerà come prima, ma siamo come incoscienti e inconsapevoli della realtà.

E' un buon segnale di ottimismo? non credo, mi sembra forse un tratto di inrealtà, l'illusione di un miracolo che verrà. Ma si potrà rimediare alla situazione di crisi solo se si prende coscienza della realtà. A cominciare dalla presa d'atto che ci sono "alcuni" che traggono benefici da questa nostra generale situazione di inconsapevolezza. 

lunedì 24 giugno 2013

Citazioni: nel bene e nel male, fino al 24 giugno 2013



Laura Balbo, sbilanciamoci, (I grandi assenti dalle riforme),  18 giugno 2013
Riuscire a guardare ad altri aspetti dei processi e dei “soggetti” coinvolti sarebbe un ulteriore elemento. ...

Si riconosce la rilevanza di processi legati alle tecnologie in continuo progresso. Abbiamo consapevolezza della dimensione globale. Si dà dunque per scontato che molti aspetti della nostra organizzazione – economica, sociale, di vita – saranno modificati. In rapporto a questa chiave di lettura – ma non soltanto – si dovrebbe considerare la prospettiva di possibili diversificazioni dei “tempi di lavoro”: il part time; orari differenziati (anche concordati tra le parti in causa); percorsi lavorativi e professionali non a tempo indeterminato, ma come successione di passaggi diversi (si può cambiare la propria “scelta” di lavoro; decidere di riprendere esperienze di formazione; optare per un soggiorno di studio o di lavoro in un altro paese). Modalità che potrebbero essere utili a molti e a molte (che ne farebbero una scelta in fasi particolari della vita). Diversi, via via, priorità e modelli di organizzazione dei propri tempi.

Dunque una prospettiva che tenga conto di forme di inserimento e presenza, nel mercato del lavoro, non per tutti le stesse, e secondo lo stesso modello. Molteplici, diversificate. Anche discontinue. Modalità che vanno viste come parte dei cambiamenti – radicali, in parte non prevedibili e forse considerati come una minaccia – che, guardando agli anni che abbiamo davanti – certo segneranno il lavoro. Ma possono essere positive, sia per il rendimento lavorativo e professionale che per le condizioni delle persone nel loro vivere quotidiano”.

Barbara Spinelli, La Repubblica, 19 giugno 2013
“Se almeno avessero le loro divinità antiche: forse i greci capirebbero meglio quel che vivono, l'ingiustizia che subiscono, l'abulica leggerezza di un'Europa che li aiuta umiliandoli da anni, che dice di non volerli espellere e nell'anima li ha già espulsi. Le divinità di un tempo, si sapevano bene che erano capricciose, illogiche, si innamoravano si disamoravano presto. Su tutte regnava Ananke: l'inalterabile Necessità, ovvero il fato. A Corinto, Ananke condivideva un tempio con Bia, la Violenza. L'europa ha per gli ateniesi i tratti di questa necessità. Forse capirebbero, i greci, come mai a Roma s'è riunito venerdì un vertice di ministri dell'Economia e del Lavoro … per discutere il lavoro fattosi d'un colpo cruciale, e nessuno di essi ha pensato di convocare la più impoverita delle  nazioni.”

Josefa Idem, La Repubblica, 21 giugno 2013 
“Non sono il tipo che bara. Né nello sport né fuori. Questo è il mio modo di vivere. Sono perfettamente consapevole di essere stata chiamata a fare il ministro anche per questo: perché per molti sono diventata, nel corso della mia carriera agonistica, un simbolo. Perché ho fatto otto olimpiadi e intanto due figli”
(Belle parole e in qualche modo vere, ma resta il fatto che ha evaso per qualche anno il pagamento dell'Ici. Uno ha un po' di scrupolo: un paese che ha avuto un presidente del consiglio accusato, tra l'altro, di evasione fiscale e che già condannato in prima istanza siede ancora in Parlamento, come fa a chiedere le dimissioni ad un ministro perché ha evaso per qualche anno l'Ici? Eppure resto dell'opinione che se la moglie di Cesare deve essere al disopra di ogni sospetto a maggior ragione Cesare. In un paese dove onestà, trasparenza e legittimità dovrebbero essere comunque caratteristiche indiscutibili di ogni parlamentare e a maggior ragione di ogni ministro la signora Idem dovrebbe dimettersi. Proprio per quello che ha rappresentato potrebbe aiutare il paese dimettendosi.)



sabato 22 giugno 2013

Al Pride di Palermo la sponsorizzazione dell'ambasciata USA

Apprendo da un volantino degli anarchici di Palermo che il Pride di Palermo “si avvale del patrocinio dell’Ambasciata degli Stati Uniti d’America. Una scelta assurda, alla luce del fatto che qui in Sicilia, ormai da anni, è in corso una lotta durissima proprio contro gli interessi militari degli USA che vogliono costruire il MUOS, una potente infrastruttura bellica dall’impatto ambientale devastante che si aggiungerebbe alle altre basi statunitensi che umiliano il territorio siciliano”. 

Se il patrocinio del Comune di Palermo e della Regione Siciliana sono comprensibili e in un certo senso obbligatori per una manifestazione di rivendicata libertà personale che si svolge a Palermo, “non si capisce cosa c’entri l’ambasciata degli Stati Uniti d’America”.

Un tentativo di acquistare benemerenze, una politica di immagine che non è chiaro come possa essere accettato da un movimento nato con una rivolta in nome della libertà e del rispetto di tutti. Verrebbe da dire che oggi è una follia ricercare delle coerenze, ma forse il movimento gay dovrà riflettere su questa contraddizione.

venerdì 21 giugno 2013

Il turismo? come.



In questi ultimi mesi, per uscire della crisi economica, del nostro paese si riparla del turismo come salvagente, in grado di mettere a frutto alcune delle caratteristiche del “bel paese”

Prescindiamo della polemica si chi vede nel turismo la trasformazione della nostra economia in un “paese di camerieri”, il cameriere è un lavoro come un altro, la sua connotazione “servile” sta nella maleducazione del cliente, che pareggia l’arroganza di molti “padroni” e “padroncini”, il problema vero e su che cosa si intenda quando si parla dell'utilizzazione del patrimonio del paese. Il turismo può, ancor di più di oggi, essere un importante settore della nostra economia a certe condizioni (esso comunque non è in grado di risolvere la crisi di sistema, ma questo tralasciamo). 

Intanto va chiarito che il turismo è una “industria pesante”, nel senso che le sue conseguenze possono essere “pesanti”, se non ben governato, proprio sul patrimonio del paese, anche se ben governato, figuriamoci allo stato brado nel quale è lasciato. 

La speranza di attrarre soprattutto una “clientela” di prestigio, cioè “ricca” di soldi, soprattutto, e di cultura, oltre che essere un atteggiamento reazionario è un'illusione sia perché tutti gli altri paesi concorrenti, e sono molti, vorrebbero la stessa cosa, sia perché si tratta di fatto di una clientela che non gradisce troppi vincoli e desidererebbe un uso esclusivo del nostro patrimonio. In realtà, oggi, i turismi sono molti ed  il turismo sostanzialmente è di massa. E' questo il fenomeno che deve essere governato. 

Non è necessario una selezione del “clienti” secondo censo, ma un’organizzazione degli stessi secondo aspettative, desideri, curiosità e per un uso regolato del nostro patrimonio. Spesso si sente la lamentela del “turista mordi e fugge” e non si riflette che il turista “fugge” soprattutto dalla vessazione e sfruttamento al quale è sottoposto da chi dovrebbe invece renderlo fedele.

Lo sviluppo del turismo non può sposarsi con una idea “edilizia”, in questo caso il disastro per il “nostro” patrimonio sarebbe assicurato con la conseguenza di distruggere l'oggetto del desiderio.

Per sviluppare il turismo sono necessarie azioni, soprattutto, di salvaguardia del nostro “patrimonio”. Non si possono privatizzare e distruggere coste, monti e paesaggio è sperare di attrarre turisti. Non si possono trasformare le nostre città d’arte in “bolge” impraticabili nelle quali il turista è il pollo da spennare. Non si può mal gestire il nostro patrimonio artistico e storico e lamentarsi che i musei sono poco frequentati. 

Lo sviluppo del turismo non serve al rilancio dell’edilizia e cementificazione, ma piuttosto in una sua limitazione, non significa concentrare l’attenzione solo in pochi siti ma cercare di valorizzare aspetti diversi del nostro territorio e del nostro patrimonio. 

Uno sviluppo ordinato e fruttuoso del turismo deve essere “organizzato” e “gestito” non secondo l’interesse degli speculatori, degli albergatori e dei ristoratori, ecc. ma secondo criteri che soddisfino insieme le aspettative del turista, gli interessi del paese e la remunerazione dei fornitori di servizi.

Fino ad oggi non siamo stati capaci di questo, gli appelli allo sviluppo del turismo non fanno sperare niente di meglio. Non basta un “movimento” di difesa di specifici luoghi o panorami o singoli patrimoni, sarebbe necessario un piano e una politica. Questa necessità rende pessimisti.

martedì 18 giugno 2013

Citazioni: nel bene e nel male (fino al 17/6/2013)




  • Renato Schifani
  • Enrico Berrlinguer
  • Massimo Riva
  • Federico Rampini 

Renato Schifani, Corriere della Sera, 9 giugno 2013

“Sinceramente non credo propria si possa arrivare a tanto (condanna di Berlusconi in Cassazione), anche perché da uomo delle istituzioni alla magistratura riconosco autorevolezza ed equilibrio, e penso sia interesse della stessa magistratura tutelare l'integrità di questi valori. Ma al tempo stesso dico che Berlusconi è un leader molto amato dalla gente, e che il suo popolo in questi anni ha sopportato le ingiustizie che si sono abbattute sul suo capo con grande senso di responsabilità e rispetto verso le istituzioni. Ma di fronte a un fatto così traumatico, malaugurato epilogo di una ventennale persecuzione giudiziaria, non riesco davvero ad immaginare come potrebbe reagire la tanta gente che gli vuole bene” 

(Uomo delle istituzioni, ma non faccia ridere, se fosse così non costruirebbe una frase che dice che la magistratura deve essere autorevole ed equilibrata e se condannasse Berlusconi non lo sarebbe. Né affermerebbe che Berlusconi subisce una persecuzione giudiziaria. Infine ecco il richiamo al popolo che ama il capo che non si sa come potrebbe reagire. L'ingiunzione è forte, la minaccia altrettanto, l'avvertimento esplicito)

Enrico Berlinguer, citazione dal un testo del 1981 e riportata da Sette, supplemento del Corroere della Sera, 7 giugno 2013

“ I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientele: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi e vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contradittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune” 

( in trentanni tutto è peggiorato, anche in quella parte politica che riteneva aliena da questi errori.)

Massimo Riva, L'Espresso 20 giugno 2013

“Crescita degli indigenti, impoverimento delle classi medie e ulteriore concentrazione di ricchezza in mani sempre meno numerose: questi i mutamenti più vistosi del quadro socio-economico indotti dalla dura crisi degli ultimi anni.... Per esempio, a fronte di una crisi esplosa a causa di un'abnorme finanziarizzazione dell'economia ci si continua a chiedere come sia stato possibile la formazione di bolle speculative sconsiderate sui titoli tossici. La risposta è già in Malthus: quando continua ad accumularsi in poche mani, il denaro si allontana dai consumi produttivi e viene inesorabilmente attratto da impieghi in avventure puramente cartacee.... anziché ricorrere ad avventurosi esercizi dilatori sull'impianto della costituzione o a baloccarsi con l'Imu e consimili bigiotteria fiscale, prendano coscienza che una più equilibrata distribuzione della ricchezza non sarebbe un atto di solidarietà sociale, ma soprattutto un affare economico per il paese”

(condivido molto, ma mi pare che la riflessione da fare sia a partire dal verbo che Riva usa: “inesorabilmente”. Se il denaro fosse attratto inesorabilmente in avventure cartacee, non basta una politica di riequilibrio, che nessuno tenta di fare sia per incapacità sia per impossibilità dato il potere dell'economia (di carta) sulla politica. Sarebbe necessario un provvedimento molto drastico, che non necessariamente segua i vecchi modelli ma che abbia le stesse o molto simili conseguenze)

Federico Rampini, Economia e Finanza, supplemento a La Repubblica, 17 giugno 2013 

“Uno studio dell'International Labor Organization (ONU), getta una luce inquietante sugli effetti della finanziarizzazione. E lei la causa principale dei due mali del nostro tempo:peggioramento delle diseguaglianze sociali rallentamento della crescita”. 

(Va bene, anche se con ritardo è bene che anche le organizzazioni dell'ONU prendano coscienza di quello che sta avvenendo nel mondo)



domenica 16 giugno 2013

80 provvedimenti, forse troppi

Oggi i giornali, giustamente, sono piene di notizie sulle decisioni del Consiglio dei ministri, che ha approvato il decreto denominato "del fare". Si tratta di ben 80 provvedimenti che investono settori molto diversi sia dell'organizzazione istituzionale, che dell'economia, delle imposizioni fiscali, della scuola, ecc..

Che si tratti di provvedimenti utili non si può negare, che siano, non dico, risolutivi ma incisivi non si può affermare con sicurezza. Oggi il Corriere della Sera pubblica per ciascun provvedimento un indice  di incisività e di realizzabilità, la classifica non pare entusiasmante.E' ovvio che si tratta di un giudizio dubbio, e di una indicizzazione ancora più discutibile e soggettiva. Ma dubitare non fa male.

Non sono in grado di giudicare i benefici che porteranno all'economia alcune semplificazioni, anche se i ministri ne valutano gli effetti in miliardi, sicuramente è molto importante il provvedimento relativo alle opere infrastrutturale e alla manutenzione delle scuole, che dovrebbero produrre, se realizzate, 30.000 nuovi posti di lavoro (parte diretti e parte indiretti). Non risolve la crisi occupazionale, sembra una goccia, ma una goccia è meglio dell'arsura.

Non vorrei ripetere le mie solite considerazioni sulla crisi, ma mi insospettisce un provvedimento comprensivo di ben 80 provvedimenti. mia nonna direbbe "troppa grazia Santo Antonio". Quando i provvedimenti sono così numerosi viene sempre il sospetto che il numero nasconda a) la difficoltà di provvedimenti più incisivi; b) che si ha voglia di confondere  con le troppa carne messa a fuoco; c) che per "fare" si individuano provvedimenti che non costano ma di dubbia efficaci e realizzabilità. Il tutto allo scopo di velare incapacità/impossibilità.

Per esempio la sostituzione fino al 50% del personale universitario che va in pensione, sembra una buona notizia ma le università sono ... al verde, così come i posti di ricercatore a tempo determinato (si dice 18.000) possono suscitare entusiasmo ma senza  chiarezza sullo stanziamento relativo sembra un annunzio che brilla un attimo.

Insomma, lo si vedrà presto, di che pasta è fatto questo governo. Fermo restando che si tratta  comunque di tamponi che non fermano l'emorragia, ma quella non pare che si voglia po che  ci sia volontà di fermarla.

venerdì 14 giugno 2013

I perché senza risposte dell'assenza della politica

Perché la politica è diventata così misera? Perché non si interessa di niente che non sia se stessa? Perché i cittadini non sanno chiedere quello che vogliono? Perché non possiamo, non sappiamo,  prendere in mano il nostro futuro? Ma gli interrogativi potrebbe continuare.

Il paese va a rotoli o come si dice e sul baratro, la crisi è una crisi di sistema che aprirebbe una riflessione sul domani, le diseguaglianze aumentano, il futuro è ridotto alla prossima mezza giornata, ... ci sono problemi enormi ai quali la politica e quindi i partiti in connessione con la popolazione potrebbero applicarsi. Ma ormai si è consolidata una divisione: al governo l'amministrazione della società, a partiti la gestione della propria esistenza, della politica nessuno si occupa.

Il PDL è alla ricerca, forse falsa, di un leader che possa guidare il centro destra, e si cerca un papa straniero: Marchini. Il partito non produce, secondo il padrone, una personalità alla quale affidarne la guida.

Il PD si incarta continuamente su Renzi si o Renzi no, su oscure formule di leaderismo. Ma per fare che cosa non si capisce.In questo caso, un semi-estraneo, Fabbrizio Barca, non pare incidere.   Si dice il PD non è schiacciato sul governo, ben detto ma non fatto. Quali sono le proposte correttive, quale le proposte nuove, quale il punto di vista sulla società futura? Neanche con il lanternino si potrebbe scoprire qualcosa.

Il M5* litiga (e spero si sfasci) sulla possibilità che gli eletti abbiano delle proprie idee e possano avanzare critiche al "capo". Trattandosi di un movimento autoritario e di marca fascista non meraviglia, come non meraviglia la perdita di consensi. Ma no, dicono i suoi sostenitori, non prendiamo per oro le parole di Grillo è il suo modo di esprimersi, ma quale lettura fare dell'attacco alle istituzioni, della impossibilità di esprimere un'opinione, ecc. Liberato dal suo frasario "volgare" la sostanza resta ed è repellente.

Della ristrutturazione del debito pubblico ormai non si parla più, si paga e basta; della disoccupazione giovanile si blatera ma soluzioni zero; della lotta, si fa per dire, alle diseguaglianze niente (al contrario c'è chi le difende come motore dello sviluppo), di una politica industriale neanche l'odore, una politica per il mezzogiorno svanita; dei diritti civili solo iniziative per la loro riduzione. 

Ma Letta "governa", fa quel che può, si dice, può poco e poco fa. In attesa della grande riforma istituzionale. Vedere la foto dell'auletta dei gruppi con tutti i 43 consulenti mette in imbarazzo, non si sa se ridere o piangere. Tutte (quasi) persone sagge e per bene, ma che potranno fare?  L'unica cosa che hanno fatto è mettere la riforma della legge elettorale in fondo ai loro lavori, forse giusto, ma insospettisce. 

martedì 11 giugno 2013

Reddito si, ma da lavoro

Reddito sì, ma da lavoro

Giorgio Lunghini 

da sbilanciamoci 10/6/2013




Forse per ragioni di età, sono ancora affezionato alla idea di Adam Smith e alla Costituzione. Secondo Smith, “Il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita che in un anno consuma”. Più breve e efficace, l’Articolo 1 della Costituzione recita: “L’Italia è una Repubblica democratica [corsivo aggiunto], fondata sul lavoro”. Sul lavoro, non sul reddito. Circa il reddito di cittadinanza o altre forme di reddito garantito, d’altra parte, non ho cambiato l’idea che coltivavo qualche anno fa, e qui la riprendo.

Quando una improbabile crescita dell’economia è sì condizione necessaria per realizzare la piena occupazione, ma non anche sufficiente, il problema di fondo di una società capitalista si aggrava. Problema di fondo che si può evocare con questo disegnino:






Se si è d’accordo su ciò, e se si conviene che presupposto della democrazia è la democrazia economica; e che a sua volta la democrazia economica presuppone la massima occupazione possibile e una distribuzione della ricchezza e del reddito né arbitraria né iniqua, allora si deve anche convenire che nessuna forma di reddito garantito costituisce una soluzione del problema. Il reddito di cui dispongono i lavoratori non occupati è il risultato di un trasferimento da parte dei lavoratori occupati, attraverso lo Stato o direttamente all’interno della famiglia. Quel reddito è semplicemente l’eccesso del salario percepito dai lavoratori occupati rispetto al costo di riproduzione di questi. Il palliativo rappresentato da un reddito di cittadinanza o di esistenza non risolverebbe la questione dell’autonomia economica e politica dei non occupati, probabilmente ne aumenterebbe il numero, ne certificherebbe l’emarginazione, favorirebbe il voto di scambio e lascerebbe irrisolta la questione dei bisogni sociali insoddisfatti. L’autonomia economica e politica presuppone un reddito da lavoro.

Diverse e positive sarebbero le conseguenze dell’altra soluzione cui si può pensare: una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro; tuttavia una politica di riduzione dell’orario di lavoro (a parità di salario) suscita oggi ovvie e probabilmente insuperabili resistenze da parte dei capitalisti, e implicitamente assume che le merci possano soddisfare tutti i bisogni. Nello stato attuale del mondo, la redistribuzione del lavoro come forma di trascendimento è una prospettiva da perseguire con determinazione ma difficilissimamente praticabile in un paese solo, se non altro per i vincoli di competitività nel settore che produce sovrappiù. Per tutta la lunga durata della depressione che si annuncia, la riduzione dell’orario di lavoro rischia di essere una forma di rispettabile compromesso aziendale tra capitale e lavoratori occupati, che però non fa diminuire la disoccupazione e rimane confinato alla logica della produzione di merci. L’idea che giustifica le politiche di riduzione dell’orario di lavoro è quella di una ripartizione dei guadagni di produttività tra imprese e lavoratori, in termini, per questi ultimi, di minori tempi di lavoro anziché di maggior salario. Dunque presuppone salari di partenza relativamente elevati e una situazione economica e sociale florida, tendenzialmente di piena occupazione. L’esatto contrario della situazione attuale. Altrimenti si tratta di licenziamenti ‘parziali’ accettati in cambio di aspettative di stabilità del posto di lavoro, ma con una ulteriore divisione tra occupati e non occupati e con una maggiore ‘flessibilità’ all’interno della fabbrica e sul mercato del lavoro.

Il livello della produzione capitalistica non viene deciso in base al rapporto tra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di una umanità socialmente sviluppata, bensì in base al saggio dei profitti. La produzione di merci si arresta non quando i bisogni sono soddisfatti, ma quando la realizzazione del profitto impone questo arresto. Anche se la produzione di merci riprendesse a crescere, non si avranno variazioni significative nell’occupazione se non in lavori servili, precari e a basso reddito. Si avrà dunque una crescita sia dei bisogni sociali insoddisfatti sia della disoccupazione. La soluzione di questo problema – troppe merci, poco lavoro – va cercata altrove, al di fuori della dimensione capitalistica e mercantile della società. C’è oggi coincidenza tra una situazione di crisi gravissima e prospettive di nuovi spazî politici. Non si tratta di uscire dal capitalismo, ma di occupare quella terra di nessuno dell’economia e della società nella quale le merci non pagano. Questa terra esiste, lo dimostrano da un lato i tanti bisogni sociali insoddisfatti, dall’altro le tante attività che non sono mosse dall’obiettivo del profitto. Volontariato, associazionismo, movimenti ambientalisti, cooperative, centri sociali, attività tutte sospette in quanto non si piegano al criterio del calcolo e del lucro, sono tutti segni non sospetti di questa realtà (al punto che a queste attività si assegna una funzione surrogatoria).

Nella produzione di merci “col carattere di utilità dei prodotti del lavoro scompare il carattere di utilità dei lavori rappresentati in essi, scompaiono dunque anche le diverse forme concrete di questi lavori, le quali non si distinguono più, ma sono ridotte tutte insieme a lavoro umano eguale, lavoro umano in astratto”. Si tratta proprio di ciò, di promuovere e organizzare lavori concreti (in contrapposizione al lavoro astratto impiegato nella produzione di merci), lavori destinati immediatamente alla produzione di valori d’uso, lavori che non siano meri ammortizzatori sociali, ma lavori capaci di soddisfare i bisogni sociali che la produzione di merci non soddisfa. Così come ci sono bisogni assoluti e bisogni relativi, ci sono servizi tecnicamente individuali e servizi tecnicamente sociali. L’azione più importante dello Stato, attraverso istituzioni appropriate e tutte da inventare, si riferisce non a quelle attività che gli individui privati esplicano già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che altrimenti nessuno prende, a quanto altrimenti non si fa del tutto.

Si tratterebbe dunque di destinare parte del sovrappiù realizzato nella produzione di merci, alla messa in moto non di lavoro improduttivo (nel senso smithiano-marxiano del termine) destinato al soddisfacimento di bisogni relativi, ma alla promozione di lavori immediatamente destinati alla soddisfazione dei bisogni sociali assoluti. Lavori prestati non nella sfera della produzione di merci ma nella sfera della riproduzione sociale e della manutenzione almeno dell’ambiente. Principalmente lavori di cura, in senso lato, delle persone e della natura. Lavori di cui vi è una domanda che i mercati del lavoro e delle merci non registrano, perché corrispondono a bisogni privi di potere d’acquisto individuale.

Mentre il lavoro astratto socialmente necessario dipende dalle tecniche di produzione adottate nella produzione di merci e si scambia sul mercato del lavoro, i lavori concreti dipendono dai bisogni sociali, questi sì inesauribili, e si scambiano non su un mercato ma nella società. In quanto intesi al soddisfacimento di bisogni sociali, i lavori concreti hanno di necessità una dimensione territoriale ben precisa e richiedono e impongono forme democratiche di rilevazione e controllo locale della domanda e di organizzazione decentrata dell’offerta. I lavori concreti non sono esposti alla concorrenza internazionale e devono rispondere a criteri di efficacia piuttosto che di efficienza competitiva. A parità dei salari monetari consentiti dalla congiuntura capitalistica e dai rapporti tra capitale e lavoro salariato, i valori d’uso prodotti dai lavori concreti comporterebbero un aumento dei salari reali e non avrebbero effetti inflazionistici. Per il lavoro astratto i lavori concreti non sarebbero un onere ma un arricchimento, poiché producendo valori d’uso servono direttamente a soddisfare i bisogni sociali, ma indirettamente servono anche a migliorare le condizioni e la stessa produttività dei valori di scambio prodotti dal lavoro astratto.

Le risorse si potrebbero trovare facilmente: se mai si volesse provvedere all’eutanasia delrentier, e alla costituzionale progressività delle imposte sui redditi e sulle ricchezze. Tuttavia di questo disegno occorre considerare gli aspetti politici, poiché si tratterebbe di governare una transizione dal paradosso della povertà nell’abbondanza a quello stato dell’economia e della società prefigurato da Lafargue e da Keynes. Anche per le sue implicazioni tecniche e organizzative, questa è una prospettiva di benessere nell’austerità, ma meglio sarebbe dire di benessere nella sobrietà. Un discorso sull’austerità che si limiti a una critica del consumismo e all’esortazione moralistica è un discorso politicamente sterile. L’alternativa non è tra benessere e austerità, è tra le possibili forme di austerità: la miseria che ci aspetta se si lascia fare, rivestita di forme nuove di fascismo, oppure una vitale sobrietà. L’apologia del mercato nasconde il disegno di cancellare la politica, riducendola a amministrazione dell’esistente. Questa opera di disvelamento e di persuasione è compito della politica, della politica in quanto critica, indirizzo e governo del processo economico-sociale di produzione e riproduzione. Utopia? Sì, ma è bene, ammonisce un grande intellettuale, che non tanto l’intellettuale quanto l’uomo in generale si senta responsabile di qualche cosa d’altro che di procacciare cibo ai suoi piccoli, finché non gli sarà segato l’albero su cui si è costruito il nido.

Vittoria, vittoria, ....

Chiunque di sinistra, di centro sinistra, di sinistra radicale, di sinistra tiepida, quasi di sinistra ecc. ieri è stato felice della grande vittoria del centro sinistra nelle elezioni locali. Non si discute, è stato un bene e anche bello.

Non si può pensare, tuttavia, che tutti i problemi siano risolti. Nel PD pare ormai convinzione generale che solo Renzi può portare alla vittoria. Al netto degli incidenti di percorso, la domanda è: alla vittoria per fare cosa? Il sindaco di Firenze si guarda bene dal dire cosa farà, i suoi discorsi sono solo di metodo e politichese (per un rinnovatore non è molto).

Ma Renzi a parte, la sinistra non riesce a ragionare sulla natura della crisi e quindi su i suoi rimedi. I più radicali pensano ad una politica keynesiana, sicuramente utile ma non sufficiente. Mi pare di poter dire che la sinistra riperde l'occasione, dopo la crisi del socialismo reale non ci è stato nessuno rinnovamento (diciamo la rifondazione fallita),  oggi quando la crisi del sistema, scrivo sistema, capitalista dovrebbe aprire una discussione sul suo superamento. Ci si crogiola prima con la tenuta della Germania, poi con la crescita della Cina (che pone problemi ma da sicurezza), dopo, quando questa rallenta, con la ripresa del Giappone e la ripresina Usa, in attesa del prossimo "brodino". Nel mentre la crisi si fa sempre più pesante e svolta verso l'autoritarismo.

Trovare la soluzione al superamento del sistema capitalista non è semplice e non ho ricette, ma so che questo è il tema e a questo tema bisognerebbe applicarsi. ma non si vede nessun fermento teorico. Come si può rivoluzionare il sistema in questa epoca? quali strumenti? quali forze? secondo quale teoria? niente o pochissimo.    

domenica 9 giugno 2013

ETERNA MADRE DELLA SINISTRA UCCISA DAI FIGLI

 IO, ETERNA MADRE DELLA SINISTRA UCCISA DAI FIGLI
Rossana ROSSANDA


Da La Repubblica, 7 giugno 2013




BRISSAGO N « O, non ci capiamo più. Li ho ascoltati per tanti anni, un lungo miagolio sulle mie spalle. Venivano dalla madre a raccontare le delusioni esistenziali. Gli amori, le speranze, le difficoltà. Ma ora davvero non ci capiamo più». Lo sguardo è severo e insieme sorridente, l' incarnato candido come le camelie che fioriscono nel giardino qui intorno. Da qualche mese Rossana Rossanda vive a Brissago, un angolo del Canton Ticino dove si fermerà fino alla fine di agosto. «Sì, è un bel posto. Dall' ospedale di Parigi vedevo solo la periferia, qui c' è il lago per fortuna increspato dal vento. Per chi non la conosce, la Svizzera può essere incantevole. Ma pare che chi ci vive la trovi insopportabile». Azzurro ovunque, le vele bianche, anchei monti innevati, una bellezza quasi sfacciatae intollerabile allo sguardo ferito di chi abita nella grande casa di vetro affacciata sul lago Maggiore. «La prego», si rivolge con famigliarità all' infermiere, «può dare un po' d' aria alle rose?». La stanza è luminosa, sul comodino la bottiglia di colonia e la biografia di Furet, un po' più in là l' ultimo libro di Asor Rosa, I racconti dell' errore. «È un bellissimo libro sulla vecchiaia e sulla morte. Ma noi vogliamo parlare d' altro, vero? I necrologi lasciamoli da parte». Per i più vecchi, nella famiglia del Manifesto, è stata l' eterna sorella maggiore, la quercia sotto cui ripararsi nella tregenda. Per i "giovani" - così li chiama, anche se giovani non sono più da tempo - è la madre temuta e ingombrante. «Sì, una madre castratrice. Mi hanno sempre visto così, anche se io non mi sono mai sentita tale. Ho sempre cercato di capire, di dar loro spazio, ma forse è una legge generazionale. I figli per crescere hanno bisogno di uccidere i padri e le madri. E ora è toccato anche a me». Nel settembre scorso ha lasciato il giornale da lei fondato con un articolo molto polemico: è mancata una riflessione su chi siamo, su cos' è diventato il quotidiano, sul rapporto con le origini e con il presente. Su cos' è oggi la sinistra. Insieme a Rossanda, se ne sono andati anche Valentino Parlato e diverse altre firme. «Non siamo noi ad essercene andati. È il Manifesto ad averci cacciato. L' abbiamo perso. Non voleva più saperne di noi, e noi ci siamo ritirati. Anche stupidamente, perché dovevamo essere noi a far tacere i più giovani. C' è stata una grandissima cesura, tra la nostra generazione e quella successiva. Mossi da una sorta di risentimento, non fanno che dirci: soltanto un mucchio di macerie, ecco quello che ci avete lasciato. Voi, con le vostre certezze e le vostre idee granitiche. È la frase più stupida che abbia mai sentito». Macerie, certezze, noi e loro. Nessun errore, nessun ripensamento? «Il mio errore è stato non tenere unito il gruppo. E anche non capire che, se per la nostra generazione è stata dura, per quelli nati negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso lo è ancor di più. Ma non dovevamo farci portare via il giornale. Come in un refrain, ci ripetono: è cambiato tutto, niente è più uguale a prima. Ma cosa vogliono dire? Cos' è questo tutto cheè cambiato?». Il mondo le appare più ingiusto che mai, tra privilegio e povertà, sfruttatori e sfruttati, management superpagato e lavoratori affamati. «Non c' è mai stata tanta ineguaglianza nella storia. Però si passa sopra tutto questo, non importa. È stato assorbito anche dai giovani il bisogno di abolire il conflitto, come se lo scontro sociale fosse una roba del secolo scorso. Anche il Manifesto ci ha rinunciato da tempo, mescolando confusamente beni comuni ed ecologismo. Sì, certo, di queste cose non me ne importa niente anche per miei limiti. Ma sento il bisogno di chiedere un ritorno al conflitto di classe. E non penso a un estremista assetato di sangue, ma alle analisi di Luciano Gallino, che io ricordo all' epoca di Adriano Olivetti». Le fa orrore una società pacificata, «l' assurda intesa benedetta da Napolitano tra Berlusconi e quel po' di sinistra che resta». E non ha grande fiducia nei movimenti, generosi e vitali ma impotenti. «Prevale ovunque l' antipartito, che mi sembra profondamente sbagliato. I partiti hanno avuto molti difetti, ma ciascuno da solo non combina niente. L' alternativa rischia di essere Grillo, il quale è riuscito a condensare i peggiori vizi dei partiti - l' autorità del Capo - senza esercitarne la funzione più nobile, ossia tenere insieme le persone, impegnarle in un progetto comune. Poi lo stile: quello che ha fatto con Rodotà è al di sotto di ogni decenza». No, ora non le interessa più tornare al Manifesto, confondersi «in quel chiacchiericcio insensato». Preferisce scrivere «su un sito di economisti intelligenti come Sbilanciamoci ». Ma non è una rottura personale, solo politica. Lo ripete più volte, come se ci volesse credere. «Almeno per me è così. Non mi pesa aver litigato con qualcuno, umanamente faccio la pace subito. Io non faccio pace con le idee, che è cosa molto diversa. Ma i giovani ragionano in altro modo. E forse io voglio più bene a loro di quanto loro ne vogliano a me». Ora che è finita, quella storia può essere raccontata, cominciando dall' inizio. Là dove chiude Una ragazza del secolo scorso, con la nascita del Manifesto e il tentativo di far da ponte tra il Sessantotto e la vecchia sinistra. «Non funzionò e vorrei tentare di capire cosa è successo. Il libro l' ho già in testa, si tratta di scriverlo. Più che l' attuale divisione da Norma Rangeri, mi pulsano gli antichi contrasti con Pintor, Magri e Natoli». Bisogna capire tante altre cose, anche perché il paese s' è ridotto in questo stato. «Lucio è stato quello che dal fallimento politico ha tratto le conclusioni più pesanti, scegliendo di morire. La perdita della moglie amata ha coinciso con una perdita di senso più generale. E ha preferito andarsene». Perché volle accompagnarlo nell' ultimo viaggio? «Era il minimo che potessi fare. Nel nostro gruppo, ero la persona che l' aveva più ferito. All' epoca del Pdup, gli portai via il giornale, sottraendogli la carta più forte nella discussione con Berlinguer. Naturalmente lo rifarei da capo, ma è sicuro che gli feci male. E avendogli voluto molto bene, mi è parso il minimo stargli vicino nel momento della fine. Stava male da anni, non era una malinconia passeggera. Abbiamo fatto di tutto per dissuaderlo, ma non ci siamo riusciti. Allora gli ho chiesto: "Lucio, vuoi che ti accompagni?". Speravo mi dicesse no. Invece lui mi ha detto sì. E io l' ho fatto». Aveva immaginato una morte serena, «come accadeva nell' antichità». E invece no, non è andata così. «Un' esperienza terribile. Però è una scelta che rispetto, e capisco. Vivere per vivere non ha molto senso. Se non ci fosse Karol ( ndr il marito malato che l' aspetta a Parigi) non avrei alcun interesse a vivere». Accompagnare qualcuno verso la morte - disse una volta in un dialogo con Manuela Fraire - vuol dire addomesticare il pensiero della propria fine. «Il dolore ti fa capire molte cose, ossia il dolore stesso. Noi rifuggiamo dall' esperienza negativa, dall' annullamento, mentre il dolore ti sbatte sul muso questa roba, e allora lo capisci. Non credo invece che tu possa uscirne migliorato, perché è un' esperienza pesante, che può schiacciarti. Così come non penso che il lutto si possa elaborare, ma rimane parte di te, incancellabile». Tutte le persone perdute se le trascina dietro, anche qui, davanti allo strano lago che assomiglia al mare. Il lago nero della sua gioventù partigiana, quello dove i tedeschi buttarono i corpi martoriati. «Oggi vivo nel presente, ma non è più il mio, essendone venuti a mancare gli elementi costitutivi. Un presente che si restringe nel tempo e nella frequentabilità. Prima potevo dire domani vado a Berlino o salgo in montagna. Ora non lo posso dire più». Prevede l' obiezione, gli occhi s' accendono d' ironia. «No, non mi piace invecchiare. Sono entrata nel novantesimo anno, ma non ne faccio motivo di vanto. Norberto Bobbio ci scrisse sopra uno splendido libro, De Senectute. Ma io non appartengo a questa categoria. Sono rimasta esterrefatta quando mi sono trovata un ictus addosso, e vorrei liberarmene. Cosa che non avverrà. Noi del corpo non sappiamo nulla. Le mie amiche femministe dicono che le donne siano più vicine all' organismo, ma non è vero. Ora provo cosa vuol dire avere mezzo corpo, edè terribile. Il corpo o è integro, o non è. Non si è un po' paralizzati, un po' malati. Lo si è completamente». Ma la mente è lucida e affilata come prima dell' imboscata. «Un aggravante. Non ti puoi distrarre da quel che sei. Non mi sono accorta di niente, quando mi è venuto l' ictus. Non ho provato dolore, non sono caduta. Guardavo la Tv, nella mia casa di Parigi.E all' improvviso sono diventata una medusa, una creatura gelatinosa e impotente. Ha presente un grosso medusone?». Ti guarda e scoppia a ridere, come se l' improbabile mostro marino appena evocato potesse portarsi via le paure. «Davvero, è così. Allora bisogna avere un carattere energico, e dirsi: io vado avanti. Ma non ho questo temperamento eroico». Doriana, l' amica che non l' ha mai lasciata, le porta il tablet per leggere. Rossanda è divertita e perplessa, «chissà se mi ci abituo». Eterna sorella maggiore, quella che ne sa sempre di più, e s' addolora se gli altri non la seguono, forse è lei oggi a desiderare una sorella più grande. «No, sono prepotente. E non potrei sopportarla». Le "ragazze del secolo scorso" sono fatte un po' così. «Sì, certo appartengo al Novecento. Anche al giornale mi hanno guardato come una donna di un tempo lontano. Ma è stato un grande secolo, cosa che l' attuale non ha l' aria di essere. Abbiamo vissuto una storia terribile, ma una grande storia. Ora siamo nelle storielle»









venerdì 7 giugno 2013

La condanna penale di Berlusconi

Non neghiamolo, una parte della popolazione italiana è contenta che Berlusconi sia stato condannato anche in appello per evasione fiscale. Sia tratta di quella parte di popolazione, non di centro destra e non innamorata di “Silvio”, che lo detesta per quello che rappresenta.

Ma c'è un'altra parte di popolazione che è soddisfatta, pur non essendo antiberlusconiana, si tratta di quella parte di popolazione che soffre malamente gli effetti della crisi e apprezza che gli evasori fiscali siano scoperti. C'è una parte della popolazione che irride, non trova scandalosa l'evasione ma non capisce come uno come Berlusconi possa essere colto con le mani nel sacco, nonostante società all'estero, leggi ad personam, una coorte di avvocati, ecc.; un'altra parte lo commisera, come sfortunato, non mette in dubbio che abbia evaso, ma ritiene che sia sfortunato l'evasore scoperto.

Poi, in fine, una parte, forse molto modesta, si è lasciata convincere che il “loro” Silvio sia un perseguitato e che egli non ha evaso.

Questa, che io penso sia l'articolazione delle reazioni alla sentenza di condanna in appello, non credo metta in discussione, nell'immediato, il consenso per Berlusconi, ma sono “opinioni” e “pensieri” che ne minano lafigura; il perenne vincitore appare ferito, colpito, stracciato. Forse niente è così devastante per la popolarità di una figura sfregiata, un perdente. Forse mi illudo ma staremo a vedere dopo la sentenza della Cassazione.

Cosa può fare il Presidente

Il presidente della Repubblica ha voluto con forza e intelligenza il governo di coalizione PD-PDL. Forse, osservando la dinamica e le modalità con il quale il governo stesso viene sostenuto, è probabile che qualche dubbio la notte lo assalga. Al di là di tutte le dichiarazioni è chiaro, infatti, che Berlusconi lo consideri un “suo” governo che resterà in carica piedi fino a quando egli lo vorrà. Insomma ha il controllo sulla vita dell’esecutivo, e in più aspira ad un posto di senatore a vita, come primo passo per un'ascesa diretta o per interposta persona, al colle più alto. Assecondarlo sarebbe una follia.

In questo disegno l’unico vero ostacolo sono le ventilate dimissioni del Presidente Napolitano; nell'insediamento al suo secondo mandato, egli ha lasciato intendere che ove non fosse chiara la realizzazione delle riforme necessarie lascerebbe l’incarico. Mi pare chiaro che le riforme necessarie non si faranno, anche il cambio della legge elettorale non pare avviata sul giusto binario. Dal PDL la riforma elettorale è vista come una penalizzazione, sicuro di vincere le elezioni vorrebbe una maggioranza assoluta sia alla Camera che al Senato, e così decidere non solo del governo ma anche della presidenza della repubblica.

Per rafforzare il Letta capo del governo, e sottrarlo al ricatto continuo della crisi, il presidente della repubblica, con una delle sue tante esternazioni (molto minori in questo secondo mandato) dovrebbe fare intendere chiaramente la sua completa avversione allo scioglimento anticipato delle camere e che, prima di andare a votare, i due rami del Parlamento saranno chiamati ad eleggere il prossimo presidente della repubblica. Sarebbe il meno che Napolitano deve al paese per avere imposto l'accoppiata PD-PDL.

Crisi dei poteri e delle istituzioni

Sarebbe un errore classificare la crisi istituzionale del nostro paese all'insipienza dei partiti, si tratta forse di ben altro.

Intanto va preso atto che “modelli” diversi di crisi istituzionali si riscontrano in tutti i paesi (si pensi solo alle difficoltà di Obama), ma si tratta di un problema di nuovi equilibri di potere. L'assetto precedente, in Italia ma anche altrove, si reggeva su una determinata struttura del potere economico che negli ultimi 20 anni è notevolmente cambiato: dall'economia reale all'economia finanziaria, un tipo di assetto che aborrisce ogni regola, ogni anche vago principio di eguaglianza e ogni controllo.

La crisi, o per meglio dire, le crisi istituzionali nascono da qui, fino a quando non se ne capiscono le matrici sarà impossibile mettere mano a qualsiasi riforma. La stessa impossibilità di dare forma istituzionale all'Europa unita ha la stessa origine, né gli “uomini di buona volontà” che pare si siano impegnati nella nuova costruzione europea si muovono con gli occhio rivolti ad un passato tramontato.

L’illusione

La Germania ha convenuto che la politica del rigore, detta anche “austerità”, sta facendo più male che bene: la recessione ora investe la Francia e non pare risparmiare la Germania.

Questa modifica di indirizzo, ancora più teorica che pratica, rende tutti soddisfatti; questi ottimisti già intravedono politiche espansive, la ripresa ecc. La borsa non va tanto male, lo spread ci risparmia e il Tesoro piazza tutti i buoni del tesoro di cui ha bisogno nel mercato a tassi vantaggiosi, che si pretende di più? insomma dal tunnel ci si avvia ad uscire per rivedere i prati verdi del benessere collettivo. Certo gli ottimisti forse sono un po’ turbati, ma solo un po’ dato che sperano nella forza vivificatrice del mercato, dalla disoccupazione che cresce, dai giovani che non trovano lavoro, dalle vertenze che si moltiplicano, dalla cassa integrazione che si espande, dagli sfratti che diventano tragedie, dalla povertà che investe strati sempre più ampi, dai furti nei supermercati di generi alimentari per bisogno, e dai suicidi di operai, povera gente ed anche “piccoli” imprenditori.

Cova nel cuore di tutti che tutto tornerà come prima; questa è una illusione.

La parte riformista dello schieramento politico e sociale rivendica la necessità di una politica di intervento pubblica; sono scettici su una possibile ripresa senza un impegno dello Stato, sia diretto che indiretto. I più radicali prospettano la necessità di un “nuovo modello di sviluppo”: meno auto, più biciclette, più energia rinnovabile e meno petrolio, ecc. Tutte cose sagge e buone ma non risolutive, quello che fa fatica a farsi strada nella coscienza collettiva, sociale e politica, è che non si tratta di cambiare il modello di sviluppo, ma piuttosto cambiare il modelle di società, rapporti sociali di produzione compresi.

Vanno colpite le diseguaglianze che non possono essere maggiori di 5 volte, o anche 10 (e non cento o mille e più come oggi), una differenza che è in grado, da una parte di prendere atto di maggiori qualità e professionalità, senza, dall'altra parte, costruire rapporti di potere. Spero si sia notato che l’imposta patrimoniale è sparita non solo dalle decisioni ma anche dalle discussioni. Vanno definiti i settori nei quali il “mercato” può ancora svolgere una funzione di “comodità”, ma vanno esclusi tutti i settori di “garanzia” (salute, scuola, cultura, ecc.). Andrà rivoluzionato tutto il sistema bancario. Il lavoro andrà redistribuito, ma garantendo, proprio dall’abbattimento delle diseguaglianze, un tenore di vita adeguato per tutti. Le nove tecnologie rendono sempre più esplicita la necessità di cambiare i rapporti sociali di produzione che costituiscono, per quella, un vincolo sempre più opprimente.

Può darsi che mi sbaglio ma la necessità di un cambiamento radicale che affronti, torno a dire, i rapporti sociali di produzione, mi pare impellente. Non è lecito illudersi guardando la ripresina americana, ma non guardando i disastri sociali che neanche quel paese riesce ad affrontare; possiamo illuderci che cinesi e indiani ci … salveranno. Presto anche loro avranno problemi. Il dominio dell’economia finanziaria fa per il capitalismo quello che non era riuscito a fare la rivoluzione russa. Il ciclo della società che conosciamo mi pare si sia concluso, lo slogan il 99% contro l’1% sebbene un po’ grossolano traduce la realtà di ogni paese e dell’intero mondo, ma il 99%, mi pare, non riesca a svincolarsi dalla ragnatela (di bisogni, consumi, aspettative, ecc.) che l’1% ha steso su di loro. Ma senza un pensiero forte che fornisca al 99% gli attrezzi per tagliare la ragnatela, si resterà invischiati anche se non pacificati. Il tema del cambiamento può essere graduale? Questo è tema di discussione.

L'eguaglianza penalizza lo sviluppo?

Sergio Romano, sull'ultimo numero di “La Lettura” (supplemento del Corriere della Sera) facendo finta di recensire un libro di Franco Gallo (L’uguaglianza tributaria, editoriale scientifica), presidente della Corte Costituzionale, al quale su 5 colonne dedica di fatto mezza colonna, perora il liberismo come soluzione dei nostri problemi, e si appoggia a personalità, quasi tutti morti, appartenenti alla stessa scuola di pensiero.

La ricchezza accumulata dai singoli non è altro, sostiene il nostro, che il riconoscimento di un merito, di una alta professionalità, dell'intraprendenza, ecc. Qui sta la matrice delle diseguaglianze, tra chi ha capacità e chi no, tra chi ha professionalità e chi no, ecc.. Non ho obiezioni a che il merito, capacità, ecc. debba e possa essere premiato, non è questo il problema, è la misura attuale di questo “premio” che sconvolge, ed ancora il fatto che mentre la maggioranza della popolazione soffre di privazioni alcuni pochi vengono premiati, ma per quale merito?

Non volendo mettere in discussione il sistema capitalistico, credo che possa essere del tutto legittimo che sia fissata una misura di tale premio, cioè delle diseguaglianze: per esempio il maggior premio non possa essere superiore a 10 volte la remunerazione media di un operaio. Il di più potrebbe essere: dato allo Stato; utilizzato per diminuire i prezzi dei beni; destinato a investimenti produttivi; finalizzato ad iniziative culturali, ecc. Non è la fine del mondo se Marchionne, per esempio, guadagni 10 volte quanto guadagna in media il suo operaio; avrebbe di che vivere degnamente e largamente, mentre la collettività godrebbe di benefici.

Ma Romano si spinge oltre, non gli basta salvare le diseguaglianze in relazione al merito, ma spericolatamente, contrariamente ad ogni evidenza, sostiene che le diseguaglianze fanno bene allo sviluppo. Non si esprime in questo modo plateale ma più elegantemente sostiene che una tassazione redistributiva faccia male allo sviluppo.

Non sarà un caso che tra i citati non viene fatto il nome di Stiglitz che sostiene proprio il contrario e a questo tema a dedicato molti studi. Ma non ci sarebbe bisogno di appellarsi all’autorità di un premio Nobel, basterebbe che Romano si guardasse intorno: nel periodo nel quale la distribuzione della ricchezza ha premiato pochi e penalizzato i molti (periodo nella quale la lotta di classe l’hanno fatta i ricchi con successo) non si è avuto sviluppo; anche dentro l’austerità i pochi si sono arricchiti a scapito dei molti. Le diseguaglianze alimentano la voracità dei ricchi, che non hanno scrupoli di affamare interi popoli per accumulare ricchezze.